Quando prende il diario di suo padre, Katia Pagani non riesce a trattenere le lacrime: “Per molto tempo non sono riuscita a leggerlo. Ogni volta che lo aprivo, pensavo a come era forte e coraggioso, ma anche all’esperienza terribile che ha dovuto vivere da bambino. Leggere il suo diario per me è sempre stato come se rivivessi la sua esperienza in prima persona”.
Le pagine scritte a mano in un quadernetto nero, conservato da una famiglia di Savona, raccontano infatti un evento eccezionale: la storia di un bambino, Umberto Pagani, deportato in un lager all’età di 11 anni.
Suo padre, Gilberto Pagani, il nonno di Katia, era nato a Lovere (Bg) nel 1905, ma aveva seguito la madre a Varazze e, nell’autunno del 1944, era stato costretto dai tedeschi a lavorare per loro come autista. Durante una di queste corvées, venne a sapere che i nazisti avrebbero fatto un rastrellamento a Sassello per fucilare tutti quelli che fossero stati trovati in possesso di armi.
La moglie di Gilberto, Maria Giulia Tiziano, era originaria di Sassello, dove aveva anche una decina di sorelle e fratelli, così lui decise di raggiungere il paese per avvisare gli abitanti delle intenzioni dei tedeschi. L’incursione fallì perché i nazisti, perquisendo le case, non trovarono armi, ma un cognato di Gilberto lo denunciò e Gilberto venne condannato ad essere deportato mille chilometri a nord-est, nel campo di prigionia di Most, in Cecoslovacchia.
La moglie decise di seguirlo e partirono insieme ai due figli: Umberto di 11 anni e Carlotta di 5.
“L’abbraccio del nonno, degli zii e dei miei cugini fu dei più cari – racconta Umberto Pagani nel diario – si misero a piangere ed io, fanciullo, non mi sapevo spiegare il perché. Il babbo lesse nei miei occhi la muta domanda e mi disse che saremmo stati lontani tanto tempo da loro ed era per quello che piangevano. Allora non capii bene che cosa volessero dire realmente quelle parole, solo dopo ebbi modo di capire meglio il loro significato. Ero stanco e, come tutti, mi addormentai. Quella notte sognai tante brutte cose, non sapevo che erano il presagio della vita che avrei passato nei mesi seguenti”.
Scritto dal protagonista 11 anni dopo la Liberazione e il rientro in Italia, il diario oggi avrà finalmente un pubblico e l’attenzione che merita, perché una liceale di 16 anni, Aurora Pagani, figlia di Katia e nipote di Umberto, ha deciso di trascrivere ed editare il diario del nonno per un esame del Liceo.
“Ho sempre saputo del diario del nonno – spiega Katia – una professoressa di educazione civica ci ha assegnato un’esercitazione sul ’44 e sul ’45 e, nella divisione dei compiti, io avrei dovuto parlare dei campi di lavoro e di sterminio, lavorando sulle testimonianze. Così ho pensato al diario del nonno. La cosa che mi ha colpito del suo racconto è che riesca a rimanere sempre sereno. Spesso dice: ‘ero io a tranquillizzare gli altri’. Mi ha stupito come ricordi certi fatti, ad esempio il bombardamento che distrusse il traghetto di Luino, che effettivamente avvenne. Mi impressiona la tranquillità e la lucidità con cui ha vissuto un’esperienza estrema, quando scrive: ‘io non avevo paura della morte perché non sapevo che cos’era’”.
“Lassù cominciai la mia vita di prigioniero – racconta Umberto Pagani – ero un segregato vero e proprio, ma un po’ per la mia giovane età, un po’ per altri fattori, si godeva di una certa libertà. Ma con i miei genitori conobbi proprio allora i primi veri morsi della fame. Rammento quasi tutto e lo scriverò per voi affinché capiate che nella vita non bisogna mai perdere la speranza, mai avere paura, si deve avere sempre la forza di continuare. A giungere sino lassù (il campo di Most in Cecoslovacchia, ndr) vi impiegai una settimana circa, un viaggio che, come quello di ritorno, non dimenticherò mai! Tra gente che non si conosceva, popolazioni ostili che ci chiamavano ‘traditori badogliani’, che ci dicevano ‘vili’ e non lo eravamo. Non avevamo paura, anzi, per la mia tenera età ebbi modo di dimostrare loro che anche i giovani italiani non temevano la morte. Forse allora non sapevo ancora cosa volesse dire morire e, di riflesso, non temevo nulla. Fu in questo clima d’odio che giunsi finalmente alla meta. Si chiudeva la parentesi di un viaggio e se ne apriva un’altra, quella della prigionia”.
“A quell’epoca, settembre del ’44 – ricostruisce Katia Pagani – c’erano già stati rastrellamenti e uccisioni in Liguria, quindi Umberto, anche se viveva a Pero (Varazze), doveva sapere che cos’è la guerra. La sensazione che ho io, leggendo queste pagine, è che lui cercasse di sopravvivere all’anormalità della violenza e della cattiveria, contrastandola, ‘normalizzandola’, cercando quasi di mantenere un distacco da quanto gli accadeva intorno”.
“Le case di queste prigioni, le chiamo così perché è il nome che più gli si adatta – scrive Umberto Pagani – erano baracche di legno dalle cui fessure entrava il freddo pungente di lassù. Con i suoi trenta gradi sottozero si riscaldavano alquanto poco. Il primo lager a cui fummo destinati era il 32, un agglomerato di baracche che riuniva al suo interno circa 1500/1700 persone. Poco distante si trovavano molte miniere di carbone, che per circa due mesi furono il nostro rifugio. Rammento che, quando suonava l’allarme, ci si avviava di corsa al loro imbocco. A noi bimbi quasi piaceva scendere nelle viscere della terra, sembrava qualcosa di piacevole, ma laggiù non era tanto bello, credete a me! L’aria era scarsa, mancava la luce e poi c’era l’ansia dell’attesa. A quella profondità (si raggiungevano anche i 600/700 metri) era opprimente, sembrava che quella massa enorme di terra che ci sovrastava pesasse sulle nostre spalle, ci schiacciasse. Al cessato allarme si veniva sballottati ovunque, tutti volevano risalire per primi a rivedere la luce del sole, a volte il cielo stellato”.
Nel lager il piccolo Umberto conosce l’umiliazione e la fame. L’umiliazione, quando incontra tre giovani che hanno subito 25 frustate per aver raccolto da terra una patata; e la fame, quando i genitori tornano stravolti dal lavoro e non possono nutrire né lui né sua sorella.
“Quando vedevo il volto emaciato del babbo, che stanco tornava dal lavoro senza aver mangiato, e capivo che la mamma faceva finta di star male per lasciare a noi il loro tozzo di pane, mi si stringeva il cuore, quasi mi veniva da piangere - si legge nel diario - Poveri genitori che, con una vita di stenti e di sacrifici, si sono rovinati la salute. Per noi hanno sopportato tutte le umiliazioni possibili ed inimmaginabili. Ci sono stati vicini per riscaldarci con il loro alito, quando già loro soffrivano. A questo si aggiungevano le nostre pene, quando io e mia sorella si aveva fame e, con gli occhi e a volte con la voce, si implorava la mamma chiedendole del pane e lei non poteva soddisfare il nostro bisogno.
La vedevo piangere in silenzio, in un angolo discosta da noi. Forse pregava, forse implorava e soffriva”.
I bombardamenti alleati sui lager e sulle miniere rivelano che il piccolo Umberto ha più fegato di molti adulti: “Mentre le pareti tremavano per il grandinare tutt’intorno delle bombe, io incoraggiavo gli altri, trovavo sempre il modo di sorridere a chi soffriva. Ero spensierato, non sapevo cos’era la morte e perciò non la temevo. Ridevo quando sentivo gli altri piangere e dicevo loro: ‘Non bisogna avere paura, guardate com’è bello!’ e mi appoggiavo alle pareti per sentire meglio il tremolio. Mio padre me lo aveva sempre detto: ‘Rammenta, Umbertino, un uomo nella sua vita, se vuole andare sempre bene, non deve mai tremare per la paura’… Ad un tratto, quando meno me lo aspettavo, mi sentii sollevare da terra e fui scagliato con violenza sulla parete opposta del corridoio. Non so con esattezza cosa io abbia provato, forse fu paura, ritenni giusto in quel momento definirla così. So che il mio istinto in quell’istante mi suggerì di correre giù e, credetemi, non ho esitato a trascinare mia madre per le sottane come un posseduto. Quando vidi le altre persone, tutto era già passato, avevo fatto una nuova esperienza. Pur essendo giovane, capii che non bisogna eccedere in nulla e che la prudenza non è mai troppa”.
Durante un bombardamento, Umberto e la madre si salvano quasi per caso grazie all’intervento di una guardia tedesca che li costringe a spostarsi: “La mamma, già allora, a stare al buio in quelle gallerie si sentiva mancare. Per evitare questo ci tenevamo all’imbocco delle stesse. Eravamo lì da circa un quarto d’ora quando una guardia tedesca ci intimò di andare via poiché era pericoloso, ma noi si fece finta e si ritornò subito indietro. Ci eravamo seduti da poco sui tubi di grandi ventilatori che spingevano aria all’interno, quando un giovinetto – poteva avere più o meno la mia età – facendo seguito alle parole con i gesti, ci scacciò da lì. Ci spostammo a malincuore. Mai avemmo a lamentarcene, perché pochi istanti dopo qualcosa ci sollevò, una forza alla quale era impossibile resistere, che ci scagliò al suolo poco lontano. Per noi fu solo questione di qualche scorticatura, ma quel povero giovane ci lasciò la vita. Povero fanciullo, per compiere il suo dovere lasciava una mamma che invano avrebbe atteso il suo ritorno”.
Se ai prigionieri italiani, bulgari, romeni, polacchi, cecoslovacchi era consentito raggiungere un rifugio durante i bombardamenti alleati, i russi erano condannati a restare nel lager e a morire sotto le bombe o per lo scoppio ritardato di quelle rimaste inesplose.
Si legge nel diario: “Ci alzammo e la prima cosa che vidi, voltandomi a destra, là dove prima c’era il campo di concentramento dei russi, era che vi erano rimaste solo due baracche semidistrutte e una trentina d’uomini in tutto. Quei poveracci non potevano uscire durante il bombardamento. Chiusi nelle loro baracche, non potevano far altro che aspettare, sentire la morte attorno, non poterla sfuggire, sentire le gambe tremare e non potersi muovere, attendere, attendere ancora, sino a quando una bomba non vi toglie il respiro e tutto finisce in un rantolo. Quel mattino quei poveri superstiti stavano cercando di trovare qualche loro compagno ancora in vita. Scavavano tra quelle macerie e non sapevano che l’insidia era proprio lì: uno scoppio, subito seguito da un altro, e poi più nulla. Appena il fumo si fu diradato, non v’era più nulla, neppure uno si era salvato. A testimonianza di quanto v’era prima, c’erano parti di corpo umano sparpagliate qua e là e null’altro”.
La trascrizione del diario e il lavoro di riedizione diventeranno quello che il liceo chiama con un termine tecnico ‘il capolavoro’, cioè un elaborato che si consegna alla fine del triennio della scuola secondaria di secondo grado. Nel caso specifico, il Liceo Scientifico.
Quali sono le tracce che la guerra ha lasciato su Umberto? “Ne ha parlato tardi - spiega la nipote Katia - Ne parlava di più la nonna. Mio padre non ci ha mai mostrato il diario. L’ho scoperto solo quando è morto”.
Umberto Pagani è morto nel 2014 per un tumore causato probabilmente dal lavoro, ma mai riconosciuto: lavorava nella stamperia del Corriere della Sera, dove curava l’incisione dei cilindri di rame che poi sarebbero andati in rotativa. Sopravvissuto da bambino alla più letale di tutte le guerre moderne, Umberto Pagani è stato, da adulto, un combattente che ha trovato nelle lotte sindacali il suo terreno di battaglia.
Prima di morire, chiedendo di essere cremato, ha lasciato un’epigrafe degna del diario che ha scritto da giovane: “Lascerò qualcosa di me sulla terra: un pugno di polvere, perché dispersa nel vento sia come il concime che sa rinnovare in ogni momento l’arida terra, a ricordo delle lotte vissute senza fare la guerra, per un mondo diverso, più umano e più giusto, per coloro che hanno sempre pagato senza chiedere il conto a nessuno, per sentirmi ancora vivo nello spirito di lotta di ognuno”.