- 11 gennaio 2019, 12:52

De Nicola, il prof "dirimpettaio" di De André: "Meglio ascoltarlo che studiarlo"

Fabrizio De André: a vent'anni dalla sua scomparsa abbiamo chiesto al Prof. Francesco De Nicola, presidente della Società Dante Alighieri di Genova, che valore hanno oggi, anche a scuola, i suoi testi

De Nicola, il prof "dirimpettaio" di De André: "Meglio ascoltarlo che studiarlo"

Quando i giornalisti usavano per lui la parola “poeta” ricordava che “Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore.” Ma intanto i suoi testi erano e sono presenti nelle antologie scolastiche. Si tratta, naturalmente, di Fabrizio De André, il cantautore degli ultimi, di cui ricorre oggi il ventesimo anniversario della morte. Lui, Francesco De Nicola, docente universitario di linguistica e presidente della Dante Alighieri, che da ragazzo era dirimpettaio delle sue finestre in Corso Italia 22, a scuola non lo farebbe studiare - perché “ascoltare una bella canzone di De André vale molto più che leggerla”- ma spiega che è importante che lo si faccia a livello accademico dal punto di vista linguistico.

Pensa che dalla sua scomparsa, come spesso accade con gli artisti, ci sia o possa esserci, una sua mitizzazione?

Quando si parla di mitizzazione vorrei procedere con molta cautela, perché poi spesso c’è la demitizzazione. Non bisogna mitizzarlo perché poi si rischia che arrivi il momento in cui si dica che è stato troppo celebrato. Va benissimo considerarlo per il suo notevole valore di cantautore. Negli anni ’70 era un autore molto laterale, non era di moda ed era per i pochi che lo avevano scoperto. Poi col tempo è diventato un mito, per tante ragioni che sappiamo, e allora forse c’è stato un eccesso d’attenzione per lui. Quindi è bene ricordarlo e ricordare che la sua attenzione presso il pubblico è stata progressiva. E lui stesso ha ammesso che se Mina non avesse cantato “La canzone di Marinella” a Studio Uno, la sua notorietà sarebbe stata molto minore.

A 20 anni dalla morte di De André, a livello accademico c’è stato un approfondimento dei suoi testi?

Che io sappia De André è stato studiato soprattutto dal punto di vista linguistico, il che è un fatto importante. Da parte dei musicologi c’è un interesse, ma anche da parte dei linguisti, perché è importante leggere i testi delle poesie indipendentemente dalla musica. Per alcuni cantautori, per esempio, questo esperimento dà risultati negativi, mentre nel caso di De André i suoi testi danno risultati notevoli. Questo forse spiega anche la durata dell’interesse per il suo lavoro, perché non c’è nulla di effimero in quello che lui ha scritto.

Ritiene che i suoi testi siano sempre attuali?

Sì, intanto bisogna dire che De André non è monocorde né monotematico, ma la sua è un’opera in cui ci sono la poesia d’amore, la poesia sociale e quella che tratta della morte. Questa è una delle sue forze, perché è un cantautore non etichettabile, rispetto invece ad altri cosiddetti impegnati o della melodia. In lui c’è questo vasto panorama d’ambiti che ancora oggi è molto sentito.

Secondo lei ci sono poeti, per così dire puri, che hanno trattato come lui, con il suo coraggio e la sua pietà, temi anche poco convenzionali?

Una delle sue poesie più note è “Città vecchia”, che è lo stesso titolo di una poesia di Saba, in cui si parla di prostitute ed emarginati. Quindi il legame con la poesia è molto forte, a parte il caso di Edgard Lee Masters, e non solo, quindi alla sua radice c’è anche una componente forte di cultura poetica, che diventa la sua opera musicale. I suoi temi sono quelli della grande poesia novecentesca: il rapporto con la natura, con l’autenticità.

I suoi testi sono presenti nelle antologie scolastiche: cosa ne pensa?

Bisogna fare una distinzione, che lui stesso faceva, tra poeta e cantautore, che sono due figure diverse. Non c’è una maggiore importanza dell’uno o dell’altro, sono attività diverse, anche perché il poeta si trova in una situazione più difficile, in quanto la sua forza è data solo dalla parola stampata, mentre il cantautore oltre a questo ha anche la musica. Ne parlavo spesso con Bruno Lauzi, con cui ero molto amico, e lui conveniva sul fatto che qualunque parola accompagnata dal violino o dal pianoforte è più evocatrice e quindi destinata a rimanere. Spesso si dice che De André sia il più grande poeta del nostro tempo, ma distinguendo tra il lavoro del poeta e il lavoro del cantautore. Non è detto che ci sia una gerarchia di valori, vanno benissimo l’uno e l’altro, purché siano creativi e abbiano idee e un loro stile. Io nelle antologie scolastiche non lo metterei, così come non metterei i cantautori, perché i testi senza arrangiamento e senza accompagnamento perdono di qualità. Si tratta di un altro tipo di produzione: allora si dovrebbero mettere anche i testi di Carosello, essendo parola scritta, ma sono fuori dal contesto. E poi ascoltare una bella canzone di De André vale molto più che leggerla.

Di "Amico fragile" si è detto che è una canzone impressionista, e insieme post-impressionista e che "Storia di un impiegato" è una canzone che assomiglia a una tragedia: è d’accordo?

Vivacità e autenticità di un autore sono dati dal suo essere se stesso; se qualcuno trova in lui addentellati con la tragedia greca o il mondo angloamericano è libero di farlo, ma questo non incide sulla valutazione di De André, che ha una propria assoluta autenticità, nata dal fatto di essere stato capace di inventare suoni e parole che ancora oggi ci colpiscono. Certo era un uomo di buona cultura, ma non un seguace del Post-modernismo o del recupero della tragedia greca. “Amico fragile” è un testo costituito da una serie di elaborazioni culturali che diventano la vera poesia di De André. Pensiamo anche a “Creuza de mä”: indubbiamente è un testo molto ben costruito, con musica etnica, l’uso di uno strumento inconsueto e di un genovese che non è proprio quello esemplare, ma ha dato un risultato finale meraviglio, evocativo di Genova; sarà il grido delle pescivendole o altro, ma conta il risultato, che non è frutto di improvvisazione. Sappiamo, infatti, che studiava e che non avrebbe raggiunto questi risultati se si fosse basato solo sull’intuizione e sull’estro. Quindi c’è una componente forte di preparazione di cultura di base unita alla caratteristica indispensabile di ogni artista, che è la creatività. Per cui io non darei tante etichette.

In una intervista ha detto di sentirsi come il personaggio letterario di Gonciarov, Oblomov, per il peso delle responsabilità. Cosa ne pensa?

Ci sono molti volti in De André, quindi certamente il richiamo è calzante, ma ce ne sono anche altri. Di qualsiasi autore, musicista o scrittore, preferirei non fare mai riferimenti forti ad altri personaggi, perché la vera arte è quella completamente individuale, cioè frutto di una propria creatività, e lui aveva questo dono. Inoltre aveva anche il dono di una voce straordinaria, era un ottimo cantante. Se si ascoltano le incisioni, per esempio, di “La canzone di Marinella” e “Amore che vieni amore che vai”, si capisce che sono canzoni che hanno capacità di resa interpretativa molto alta. Alcune sono frutto di arrangiamento, come “Creuza de mä”, mentre altre cantate solo con l’accompagnamento della chitarra, fanno venire fuori, oltre all’artista, il cantante, e questo è un elemento importante da non trascurare.

De André ha tradotto e cantato anche tre canzoni di un altro cantautore, cioè Leonard Cohen: cosa pensa della resa?

Non so quanto le traduzioni fossero sue completamente, non essendo stato uno studioso di letterature straniere, e immagino che qualcuno lo abbia aiutato, ma resta il risultato finale. Pensiamo anche a Edgard Lee Masters: certamente c’è una sua componente che si sovrappone a quella di “Spoon River”. Dividere nettamente quella che è la traduzione e la sua creatività è difficile. Nessun traduttore che usa il testo di base per una propria opera deve rimanerne fedele, anzi, più se ne allontana e meglio è.

I giovani negli anni ‘70 si rispecchiavano nel suo messaggio e nei suoi valori; quelli di oggi, che ascoltano cantanti ben diversi, pensa che possano fare altrettanto?

Non bisognerebbe generalizzare e si dovrebbe chiederlo a loro, ma i giovani di oggi direi che sono abbastanza lontani da De André, anche se alcuni riescono ad apprezzarlo e amarlo. Mi sembra che i loro gusti musicali siano molto lontani anche dal dialogo che Fabrizio fa con gli ascoltatori, perché non dimentichiamo che è un grande affabulatore, ma anche un cantante che cerca di mettersi in correlazione diretta con chi lo ascolta. Quando eravamo giovani, nei primi anni ’70, ci si incontrava in casa di qualcuno e con i vecchi giradischi si ascoltavano i suoi primi 45 giri, con desiderio quasi clandestino. All'epoca era conosciuto da pochi.

Medea Garrone

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A NOVEMBRE?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare" su Spreaker.
SU