L'idea di ospitare Olimpiadi future, e si ipotizza per il 2028, in diverse città del Nord anzinché in un unico centro non cambia di una virgola la riflessione sul costo e sull'impatto debitorio dei grandi eventi sportivi. Se il primato di questa idea spetta a Toti o a Maroni, poco importa. Metropoli di blasone culturale come Torino e Milano non riescono a mettersi d'accordo sul Salone del Libro. Figuriamoci mettere in pista una pluralità di amministrazioni per una torta ancor più grossa, da sempre attrazione per gli appetiti mangerecci.
Non è moltiplicando il numero di località coinvolte che si azzera il problema degli sprechi (Italia 90 docet) e dell'eventuale tarlo corruttivo. Al di là dell'ubriacatura retorica, che fa leva sul sano spirito sportivo, città quali Berlino, Atene, Barcellona, Sydney e Melbourne - per fare alcuni esempi - insegnano che tirare su parchi olimpici fa molto bene a costruttori, comitati e speculatori, ma non corrisponde ad un vantaggio collettivo di lunga durata. Finita la festa, tutto si traduce in impianti che diventano scheletri o ruderi, ma soprattutto in debiti.
"Distribuire" le Olimpiadi in diverse città significherebbe allentare il controllo sulla legalità e far aumentare le spese. Come se ce ne fosse bisogno. A proposito, secondo uno studio della Oxford University, nel corso delle varie edizioni ogni Paese avrebbe sforato il budget previsto nelle fase preliminari in media del 176%. Basta immaginarsi cosa succederebbe con dieci città italiane coinvolte nello sforzo organizzativo.