Al Direttore - 08 dicembre 2015, 13:30

Una confessione del passato: il racconto di Roberto Nicolick

Una confessione del passato: il racconto di Roberto Nicolick

L’uomo davanti a me, avrà novant’anni, anche se non mi dice la vera età, io lo reputo per  la classe 1925,  il corpo è incurvato, i capelli radi e bianchi, le rughe hanno invaso il viso e le mani  che tremano, gli occhi sono stanchi e velati, siamo seduti in un piccolo e triste bar in un quartiere popolare di Savona, un tempo il quartiere aveva una cattiva nomina, si diceva che fosse la fucina dei giovani delinquenti che imperversavano a Savona, Piazzale Moroni.  Il vecchio, anzi il grande vecchio, a suo dire,ha vissuto da protagonista alcuni fatti a cavallo tra il 43 e il 47, fatti, dove tanta gente , uomini , donne e ragazze per lo più innocenti, ci hanno lasciato la pelle, ammazzati per un nonnulla. Era partigiano, e non un partigiano qualunque, ma un capo, comandava un distaccamento di una brigata d’assalto comunista che combatteva i repubblichini nel territorio del Savonese. Il suo nome compare nelle pubblicazioni di un “ente morale” che ha distanza di 70 anni, esalta con accanimento mediatico le attività del partigiani. Concretamente con i suoi uomini si dava parecchio da fare nel liquidare fascisti o presunti tali. Ha letto, oppure qualcuno molto più probabilmente, gli ha segnalato, un mio articolo su un quotidiano di Genova in cui descrivevo l’incontro con la figlia di un partigiano rosso , a questa donna facevo un resoconto delle attività, scarsamente etiche, del babbo di cui lei era all’insaputa. In quel frangente notavo la sorpresa della donna. A fronte di ciò, il vecchio si è procurato il mio numero di cellulare e mi ha chiesto un incontro. Voleva conoscermi e forse a mio parere voleva raccontarmi delle cose. Ci vado volentieri. Mi offre un caffè e poi dice di aver partecipato a tutto il periodo insurrezionale in Savona e dintorni. Ne è fiero almeno alla’apparenza, afferma di aver “giustiziato sommariamente” molti fascisti senza distinzione di sesso o età, anzi dice che quelli giovani, anche i ragazzini, erano ancora più pericolosi di quelli vecchi. Smentisce gli stupri sulle donne fasciste, e se sono avvenuti , si tratta di pochissime occasioni e infauste.

Poi inizia a parlare del noto caso della strage di Cadibona, in cui il 13 maggio 1945, 39 prigionieri Repubblichini furono passati per le armi, lui c’era. Le sue parole , pur se strascicate dagli effetti dell’età, sono comprensibili e interessanti, afferma che fu una mattanza premeditata da giorni e fortemente voluta, decisa sul momento, e soprattutto frenetica.

C’era nell’aria, non solo la primavera, ma una voglia pazza di ammazzare, di sparare su dei fascisti anche se inermi come quelli. Il tam tam aveva segnalato l’arrivo ad Altare del bus con sopra i prigionieri quindi i più agitati erano belli che pronti . La scorta da Alessandria era tornata verso nord lasciando in consegna ai poliziotti ausiliari partigiani il gruppo di repubblichini. Ridendo il mio ospite, mi racconta che il primo trattamento fu incruento, sputi e ingiurie, pugni e calci, il tutto in clima di ilarità di chi agiva e non di chi li riceveva , ovviamente. Poi il gruppo di armati a Cadibona, si ingrossò con tutti quelli che arrivavano da Savona con ogni mezzo.

Tutti volevano  vedere da vicino “le bestie”, tutti volevano mollargli almeno uno schiaffo e poter dire c’ero anche io, erano presenti i principali killer di fascisti di Savona, pronti a sparare. I poveri prigionieri , alle 13, vennero trasferiti dal pulman ad un camion, fatti salire a calci sul cassone e trasferiti fuori dall’abitato di Altare, accanto ad una curva al chilometro 154, e lì fu chiaro cosa sarebbe successo.  

In quel momento la frenesia di morte toccò l’apice. Il vecchio mi racconta che i boia si spintonavano per poter essere sulla linea di tiro e poter sparare su quella “carne fascista”. La sparatoria , a senso unico, durò quasi una mezzora. Non sa dirmi quante pallottole vennero sparate ma alla fine nella valletta tra gli alberi a terra c’erano 39 corpi crivellati e una nube acre causata dalle armi. Sono un po’ scosso dal racconto, ma maschero la mia emozione e la mia riprovazione.

Lo ringrazio del racconto e faccio per andare via da quell’uomo per cui provo un po di fastidio, ma lui mi afferra ad un braccio, ha una stretta ancora vigorosa e una mano nodosa, e continua a parlare ma in modo diverso, la voce tradisce sofferenza: “ non sono mai riuscito a scordare quelle urla e quelle invocazioni di pietà, ancora oggi la notte risuonano nei miei incubi, cercavo di non passare da quel punto dove anche io ammazzai perché provo un gelo che mi assale. Non sono Cristiano e non ho il pentimento ma ricordo perfettamente le grida dei feriti mentre li finivamo, il sangue sulla terra, i mitra che sparavano, i bossoli che saltavano, era davvero una cosa infernale che non potrò mai dimenticare e dopo, la cosa più pesante, il silenzio che era come una cappa di piombo che pesava sulla scena del macello, non si sentiva più neppure il vento tra gli alberi o il canto degli uccelli, era come se tutto il mondo  , con la mattanza, fosse finito e    non ho mai più parlato di quel lontano giorno di maggio del 1945.”  Poi si alza e si allontana appoggiandosi ad un bastone, anche io me ne vado con un sapore amaro in bocca, dopo aver conosciuto di persona un assassino.

Roberto Nicolick

r.g.

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