Attualità - 23 dicembre 2014, 12:25

Intervista esclusiva a Giovanni Impastato. Rapporto Stato – Mafia e situazione ligure. Perché proprio la nostra regione?

"Fin dal 1979, un anno dopo la morte di Peppino, la mafia era per noi un fenomeno nazionale, non più solo locale, ma quando noi sostenevamo questo la gente del nord si metteva a ridere"

Intervista esclusiva a Giovanni Impastato. Rapporto Stato – Mafia e situazione ligure. Perché proprio la nostra regione?

 

Era il 9 maggio del 1978 quando suo fratello, Peppino Impastato, venne fatto saltare sui binari della linea ferroviaria che collega Palermo e Trapani. Il giorno che tutti ricordano per il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro era anche quello del ritrovamento del corpo dilaniato di un giovane giornalista che per tutta la sua breve vita si era battuto contro la mafia da quel piccolo paese che è Cinisi, in provincia di Palermo.  

Da quel giorno la madre Felicia Impastato e il fratello Giovanni si sono battuti, non solo per affermare verità sulla morte di Peppino - inizialmente etichettato come un terrorista – ma in generale hanno assunto un ruolo di primo piano nella diffusione della cultura della legalità e di una coscienza antimafiosa. 

Abbiamo incontrato Giovanni Impastato e con lui analizzato la situazione del fenomeno mafioso nella nostra regione, ormai incalzante. Un fenomeno in continua evoluzione che merita di essere considerato in tutte le sue sfaccettature.“Oggi la mafia non è più quella di allora - ha detto Impastato – l'identikit del boss mafioso è ormai storia, oggi ha tutto un altro aspetto". 

E' a conoscenza dei fatti di mafia che hanno interessato la Liguria?

"Come si spiega questo fenomeno? Non conosco in maniera dettagliata quello che sta succedendo nella vostra regione, ma posso dire che ho sempre sostenuto l'idea che la mafia sia oggi un fenomeno che ha invaso ormai tutto il territorio nazionale. Abbiamo addirittura iniziato a parlarne con la nostra associazione 'Casa Memoria', subito dopo la morte di Peppino. Nell'anniversario del suo omicidio, abbiamo organizzato la prima manifestazione nazionale contro la mafia. Era il 1979, già fin da allora la mafia era per noi un fenomeno nazionale, non più solo locale, ma quando sostenevamo questo la gente del nord si metteva a ridere. Ci dicevano 'é un problema vostro, la storia di Peppino colpisce e coinvolge, soprattutto per la sua brutalità, la mafia però non ci riguarda'. Ma a distanza di anni credo non sia più un problema dire che oggi ci sia più mafia al nord che in Sicilia".  

Come legge i recenti fatti di Mafia capitale?

"La cosa che più colpisce sono i rapporti diretti con le amministrazioni: prima facevano affari con il centrodestra, ma cambiata amministrazione si è modificato ben poco, si è continuato a fare i soliti affari legati a tutta una serie di persone criminali. Questa è la chiara e precisa dimostrazione di un'analisi che molti non possono digerire: che la mafia non è affatto l'antistato, ma è parte integrante di questo Stato perché è all'interno delle istituzioni. C'è però uno strano dualismo per cui la mafia diventa l'antistato quando all'interno delle istituzioni ci sono  persone che vogliono bloccare il suo percorso criminale: solo per farne alcuni esempi Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Ambrosoli. Finiamola di dire che la mafia è l'antistato, la mafia è dentro lo Stato, nel cuore dello Stato. Lo confermava Falcone, magari un po' di riflesso, quando diceva 'ogni storia come ha avuto un inizio avrà una fine' e aggiungeva che la mafia ha ucciso i migliori servitori dello Stato che questo non ha potuto e soprattutto voluto proteggere. Teniamo a mente questo quando analizziamo i fatti della Liguria o la recente vicenda di Mafia capitale".

Perché proprio la Liguria? Terra di confine? Possibile base per il narcotraffico?

"Certo che è una terra di confine, c'è la Francia a pochi chilometri, c'è Sanremo, ci sono posti di un certo livello, interessi precisi. E' chiaro che la mafia, come diceva Falcone, va dietro il denaro ed è chiaro che in Liguria si stia giocando un mercato importante, anche perché c'è un'economia completamente diversa dalla Sicilia. Facciamo solo esempio dei beni confiscati, in Liguria ce ne sono molti e questa è la dimostrazione di come questo fenomeno si stia espandendo anche da voi in maniera molto forte. Non è che alla mafia fa più simpatia una o un'altra regione, ma è chiaro che loro cercano di allargarsi e di espandersi anche in situazioni completamente diverse dalla Sicilia dove, ormai, hanno un po' terra bruciata da questo punto di vista. Qui sono venuti fuori dei conflitti, è venuta fuori tutta una serie di movimenti antimafia, in Sicilia c'è stato uno scontro diretto con la mafia, qui la cosa sta diventando molto difficile per loro. Inchieste confermano che oggi sia in atto un cambiamento radicale della mafia".

In che modo sta cambiando?

"Il cambiamento è avvenuto da poco, ormai questi mafiosi che conosciamo un po' dalle cronache, fanno parte della storia. L'identikit del boss non è più riconoscibile in questi elementi, oggi si parla di borghesia mafiosa. Queste persone che avevano la quinta elementare e che erano dei criminali, ora non esistono più. Se sosteniamo che si tratta di borghesia mafiosa, l'identikit del mafioso si può riconoscere in banchieri, medici, avvocati, persone che appartengono a questa classe sociale. Tra gli arrestati della vicenda Mafia capitale, non vi erano di certo i criminali incalliti con la quinta elementare, ma facevano parte della borghesia, quella era un'associazione a delinquere. I fatti danno ragione all'analisi che noi iniziammo a fare subito dopo la morte di Peppino". 

Lo Stato ha avuto un ruolo fondamentale nel depistaggio delle indagini sulla morte di suo fratello.

"Il delitto di Peppino è stato organizzato assieme a settori istituzionali, in questo delitto c'è stata la complicità di alcuni investigatori, carabinieri, giudici intervenuti sul luogo, che non erano di certo in buona fede. C'era un legame stretto per far passare Peppino come terrorista, per depistare le indagini, per far sparire alcuni reperti importanti". 

Lottare contro la mafia significa quindi anche lottare contro lo Stato?

"Diciamo di sì. La mafia è un fenomeno criminale che ci portiamo dietro dall'unità d'Italia e non l'abbiamo ancora sconfitto. Partiamo da questo presupposto: noi abbiamo sconfitto il banditismo sardo, quello siculo, in un certo senso anche la Banda della Magliana e le Brigate Rosse che, quindi, possono definirsi fenomeni antistato, ma perché non abbiamo sconfitto la mafia? Chiediamoci questo. A parte che è mancata la precisa volontà di risolvere il problema, la mafia non l'abbiamo sconfitta perché non è assolutamente un antistato. Queste cose succedono perché sono state e continuano ad essere coinvolte persone dello Stato". 

Qual è ruolo della comunicazione e dell'informazione in tutto questo?

"La comunicazione è utile, determinante, noi l'abbiamo visto con la storia di Peppino. Abbiamo fortemente usato i mezzi di comunicazione così come lui ha fatto in quel periodo storico con la radio ad esempio, e questi ci hanno aiutati a far conoscere la sua storia in tutto il mondo. Il cinema con il film 'I cento passi' ci ha permesso di diffondere la figura di Peppino in tutto il mondo, forse se non ci fosse stato, oggi non saremmo stati qui a parlarne. Quando i mezzi di comunicazione vengono sfruttati in maniera positiva ecco che viene fuori qualcosa di positivo, il problema si pone quando avviene il contrario. Oggi viviamo sotto una dittatura mediatica, non c'è bisogno di aprire la porta e vedere passare carri armati, basta accendere la televisione".  

In un contesto del genere dove si trova la motivazione per impegnarsi nella diffusione di una cultura della legalità?

"La motivazione è nella sensibilità delle persone a non accettare la sopraffazione, le ingiustizie, lo sfruttamento, la negazione dei diritti. Io credo siano queste le motivazioni. Una persona che tiene a tutte queste cose necessariamente si deve impegnare in questa difficile battaglia, e noi lo facciamo giornalmente. Non soltanto sul nostro territorio, ma anche a livello nazionale: con la presenza continua, costante nelle scuole soprattutto, in mezzo ai giovani, con le associazioni, col volontariato. Io credo che ci siano tanti motivi per potersi impegnare, purtroppo però viviamo una situazione difficile, difficilissima. Lo sappiamo tutti che i giovani sono molto esposti e condizionati da questi mass media che bloccano una crescita sociale e culturale, che distraggono un po' dall'impegno centinaia di migliaia di giovani. Oggi i ragazzi non hanno più tempo di guadarsi attorno ed entrano con molta facilità in una fase di rassegnazione, non la chiamerei nemmeno indifferenza, e questa purtroppo è una precisa scelta politica".

Simona Della Croce

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