La carità va bene, ma a patto che venga spesa per "noi" e non per i poveri.
Questo, in soldoni e senza troppi giri di parole, ciò che si trova nei cestini delle offerte delle chiese, e la chiesa di Luceto non fa eccezione.
Se non fosse che, con pochissimo tatto e sicuramente senza pudore, il segreto di Pulcinella è stato reso pubblico tramite una raccolta firme, fatta passare sottobanco durante le messe e inviata tramite lettera al parroco, nella quale i fedeli si lamentavano di un "utilizzo eccessivo" delle donazioni alla chiesa in favore dei mendicanti e dei poveri.
Carità a rate e con moderazione, soprattutto se il portafoglio stringe e si corre il rischio di avvicinarsi troppo alle condizioni di chi, con quei 4 spiccioli, si vorrebbe "aiutare". Meglio non esagerare quindi, che tirino la cinghia anche loro, supponendo che, tanto, ci sono abituati.
Di fronte a quest'episodio, singolare ma sintomatico, è inevitabile cominciare a riflettere non solo sulla pericolosa china economico-culturale che sta prendendo il nostro paese, ma soprattutto su cosa si nasconde dietro alla cultura della carità, che nei tempi del boom economico è andata a sostituire quella della solidarietà, tipica dei movimenti operai che hanno permesso di uscire dalla crisi.
Ma prima di tutto, che cosa contraddistingue i concetti di carità e di solidarietà?
Nell'accezione comune le persone solidali, tra di loro, nutrono un sentimento di uguaglianza: il presupposto cioè di essere sullo stesso piano, appartenere ad una stessa categoria o di riconoscere in entrambi almeno una caratteristica in comune che giustifichi il rapporto di reciproco aiuto (solidarietà tra i lavoratori, tra le mamme, tra bambini, tra amici, tra poveri...).
La carità invece è tutta un'altra cosa: alla base c'è un rapporto di diseguaglianza e si fonda sul sentimento di pietà: presuppone cioè che chi fa la carità "sia" o "possegga" (spesso due concetti sovrapposti) qualcosa in più dell'altro, si senta migliore e vincente rispetto a chi, invece, la riceve; in quest'ottica la donazione di una piccola parte di quella dote si trasforma in un gesto che soddisfa più il proprio ego, che rimarca a la superiorità di status, o addirittura che consente particolari "agevolazioni", piuttosto che mirato alle reali necessità dell'altro.
Il ricco che sovvenziona un ospedale per pagare meno tasse, il cittadino medio che dona 100 euro alle vittime dello Tsunami, unendosi al "cordoglio" del mondo globalizzato e civilizzato, l'anziano che, più vicino alla morte, lascia gli spiccioli nel cestino delle offerte in chiesa, nella speranza di andare in paradiso: questi sono i classici esempi.
Diverse forme di carità, termine oggi edulcorato con concetti come beneficenza, filantropia ed altre amenità, al fine poter giustificare l'esistenza delle differenze, delle classi sociali, senza per questo far perdere alla Grande Madre Chiesa il monopolio della carità nell'accezione più tradizionale: il piatto di minestra al disperato.
Non è un caso infatti che la Chiesa non solo detenga il monopolio della gestione dell'anima e che abbia un proprio uomo alla biglietteria per il paradiso, ma che detenga anche il controllo dell'aiuto dei poveri in termini di mense e dormitori e prima accoglienza: onere che in realtà spetterebbe al nostro grande Stato laico, e che invece si accolla volentieri la chiesa, magari in cambio di agevolazioni fiscali e potere politico pressochè illimitato.
Il quadro, a conti fatti, non è rassicurante: una società fondata, economicamente e culturalmente, su individualismo, concorrenza,arrivismo (homo lupus omini) dove una sola istituzione ha il monopolio della "gestione dei vinti" in cambio di potere per poter continuare a legittimare culturalmente questa condizione, e dove l'aberrante concetto di carità sembra essere rimasto l'ultimo vero collante sociale al posto della solidarietà.
Almeno finchè c'è abbondanza... condizione in cui i vincitori possono godere di risorse superiori ai perdenti.
Ma cosa succede quando in tempi di crisi quest'abbondanza, tale da permettere la carità e la distinzione di status, viene meno? Quando invece di avere medie classi di vincitori e perdenti, si vanno a delineare sempre più nettamente due classi, quella più piccola de ricchi, mentre quella dei poveri accoglie oceani sempre più vasti di persone? Che quel "collante sociale", la carità, si frantuma di fronte alla paura e all'egoismo, quello stesso egoismo su cui essa stessa si basava.
Homo lupus omini sembrerebbe ciò che rimane, almeno fino a quando ci saranno capri espiatori su cui scaricare le proprie colpe e bacchette magiche che promettono di uscire velocemente dalla crisi ad un unico prezzo: la schiavitù.
Fortuna nostra, esiste ancora quell'altro valore menzionato all'inizio, la solidarietà, ed esperienze passate che dimostrano inequivocabilmente, che altre strade sono possibili.