Savona - 14 marzo 2012, 16:46

Intercultura: "Donne in Nero" Savona, l'import - export di coppie miste

Ogni anno migliaia di coppie israeliane di diversa religione si sposano all’estero perché nel loro paese non esistono le unioni civili. Ne parliamo con la giornalista italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci

Intercultura: "Donne in Nero" Savona, l'import - export di coppie miste

Nel giugno del 2011 la piazza centrale di Larnaca, a Cipro, divenne per un giorno teatro di un vero e proprio matrimonio di massa. 170 coppie arrivate da Israele per dire sì al loro amore. Non un evento eccezionale perché le statistiche parlano chiaro: ogni anno almeno 1000 coppie di futuri sposi israeliani si recano a Cipro perché nello Stato ebraico “formalizzare” il proprio amore é impossibile se i promessi sposi appartengono a due fedi religiose diverse o semplicemente qualora uno dei due non abbia alcun credo. La legislazione attualmente in vigore consente infatti di sposarsi solamente all’interno di una delle dodici comunità religiose riconosciute (ebraica, musulmana, drusa e nove diverse confessioni cristiane).

Non essendo contemplato il matrimonio civile (riconosciuto dalla Corte Suprema israeliana se registrato in un paese estero) migliaia di coppie “miste” sono costrette ogni anno a spendere soldi per sposarsi fuori, lontano dalle loro famiglie, e a sottoporsi ad una lunga trafila burocratica perché il loro matrimonio sia poi formalmente riconosciuto dal Ministero degli Interni. Tanto che il matrimonio a Cipro è diventato una delle opzioni offerte dai pacchetti turistici delle agenzie di viaggio israeliane. Un articolo apparso la scorsa estate sul quotidiano israeliano Haaretz mette in luce come la mancanza di una legislazione sulle nozze civili sia legata alla cosiddetta haredizzazione della società israeliana, vale a dire alla crescente influenza dell’establishment dell’ebraismo ortodosso, che detiene anche la gestione di tematiche della sfera civile, quali il matrimonio e la famiglia. Con l’appoggio palese dei vertici politici. Nel luglio 2011 il parlamento israeliano, la Knesset, ha bocciato la proposta di legge per consentire i matrimoni civili, una sconfitta in termini di libertà che si deve, secondo le parole del deputato Nitzan Horowitz (del partito Meretz, promotore del disegno), alle comunità ultra-ortodosse.

A riprova che lo Stato di Israele si “va sempre più trasformando in una fortezza ebraica” citando il giornalista Johnatan Cook. “È un paese che si va sempre più richiudendo in se stesso” dice Anna Mahjar-Barducci, giornalista e scrittrice italo-marocchina autrice di due libri, “Italo-marocchina” edito da Diabasis e “Pakistan Express” uscito per Lindau. La sua storia è l’emblema delle difficoltà che ogni anno le coppie “miste” e i loro figli incontrano in Israele. Cresciuta tra la Versilia, il Marocco, la Tunisia e il Pakistan, anche Anna, che non è ebrea, ha dovuto recarsi a Cipro per sposare quello che è diventato suo marito, un ebreo israeliano. Dopo un anno (durante il quale sulla carta di identità di suo marito è apparsa la scritta “sotto investigazione”) lo Stato di Israele ha finalmente riconosciuto la loro unione. E fino a qui tutto bene. I due coniugi, affinché Anna abbia il suo permesso di soggiorno regolarmente rinnovato, devono sottoporsi a interrogatori separati condotti dal Ministero degli Interni e presentare ogni volta lettere di “raccomandazione” scritte da amici e parenti.

Le complicazioni burocratiche, da vero teatro beckettiano, sono nate però quando i due coniugi hanno avuto una bambina, Hili, nell’agosto del 2009. “Non essendo io né israeliana e neppure di fede ebraica, lo Stato di Israele non ha voluto che mia figlia avesse il cognome paterno, nonostante mio marito avesse già riconosciuto la bimba e noi fossimo regolarmente sposati, ci hanno obbligati a sottoporci ad un test del DNA. Il primo certificato di nascita di Hili non riportava né il nome del padre né la nazionalità, ma soltanto il mio cognome. Per otto mesi, Hili è stata apolide e non abbiamo potuto lasciare il paese”. Quando suo marito - che tra l’altro è anche stato consigliere del premier Yitzhak Rabin e ha ricoperto alti ruoli nell’Esercito - si è lamentato con il Ministero degli Interni, si è sentito rispondere dall’impiegata responsabile che era "una vergogna che lui portasse degli stranieri in Israele". “Il test lo abbiamo dovuto fare a nostre spese - racconta Anna - spendendo 1000 euro, a cui si aggiungono le spese legali di quasi 2000 euro per il Tribunale della Famiglia. Soltanto dopo otto mesi dalla sua nascita, Hili ha avuto un nuovo certificato di nascita con il cognome paterno e il passaporto”.

Ovviamente le voci “religione” e “nazionalità”sul suo documento sono vuote. “Ogni giorno, quando porto al parco mia figlia nel parco a Gerusalemme incontro decine di donne i cui figli sono nella stessa situazione. Questi bimbi sono cittadini israeliani a tutti gli effetti, un giorno saranno uomini e donne, pagheranno i contributi allo Stato e saranno obbligati - così vuole la legge - a fare il servizio militare; eppure non potranno godere del diritto a sposarsi nel loro paese”. Negli anni ’60 il caso di Benjamin Shalit, sposato ad una donna cristiana, fece scalpore. Quando tentò di registrare suo figlio come “senza religione”, ovvero appartenente al popolo ebraico ma non alla religione, fu costretto a rivolgersi alla Corte Suprema, che alla fine gli diede ragione. Una decisione che scatenò polemiche tali da parte degli ortodossi che negli anni ’70 un emendamento approvato dal Parlamento decretò che solo chi si dichiara “religiosamente” ebreo secondo l’halakha (ovvero la tradizione giuridica dell’ebraismo di cui il Gran Rabbinato è l’autorità) può essere anche considerato parte del popolo ebraico. “Anche la legge approvata nel 2010 sulle unioni civili di persone non religiose, non risolve il problema - afferma Anna -. Ancora una volta si ghettizza, trattandosi di una riforma di facciata”.

Il matrimonio civile, infatti, è attualmente consentito ma solo nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano certificati di nascita sui quali è indicato “senza affiliazione religiosa. La sinistra israeliana non porta avanti alcuna battaglia per i diritti civili. E a destra è ancora peggio. Anche durante l’enorme ondata di protesta sociale che ha interessato il paese la scorsa estate, sono stati dimenticati i diritti civili, come se poi lo sviluppo economico e quello della società fossero due elementi separati. Viene negato un diritto fondamentale, quello di sposare liberamente chi si ama. In questo senso Israele viola apertamente l’articolo 16 della Dichiarazione Universale per i Diritti Umani (ndr secondo cui uomini e donne, senza limitazioni relative a razza, nazionalità o religione, hanno il diritto di sposarsi e formare una famiglia)”. Anna conclude con il racconto amaro di un commento di cui è stata testimone, mentre frequentava il corso di ebraico a Gerusalemme. La sua insegnante israeliana, in jeans attillatissimi, ha candidamente ammesso “non vorrei mai che mio figlio sposasse una ragazza non ebrea”. “Se una madre ‘bianca’ affermasse che non vuole che sua figlia sposi un ‘nero’ - dice Anna - sarebbe accusata di razzismo. Negli Stati Uniti puoi essere denunciato per una frase simile”.

 

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