L’amministrazione comunale di Borgio Verezzi ha accolto volentieri la proposta dell’assessore Angelo Berlangieri e lunedì, con inizio alle ore 21, ospiterà al Teatro Gassman lo spettacolo “Parti oscure. In margine ai promessi sposi”, scritto e diretto da Marco Ghelardi ed interpretato da Ernesta Argira e Mariella Speranza della Compagnia Salamander di Savona.
La protagonista è Marta, un’ attrice disperatamente alla ricerca del ruolo che le cambierà la vita. Un giorno riceve una telefonata da un regista che le promette una parte. Marta inizia a sperare e tra varie e comiche peripezie racconta al pubblico le sue illusioni, fino a quando la realtà si fonde con la finzione imprigionandola in uno spettacolo da cui non potrà più fuggire. E’ a questo punto che arriva “l’altra” Marta, il personaggio manzoniano, la serva dell’innominato, l’unica tra i personaggi del castello ad avere un nome proprio. Marta l’attrice e Marta il personaggio si incrociano sul palcoscenico e una lascia il posto all’altra in un susseguirsi di comiche vicissitudini e drammatica consapevolezza del proprio stato di personaggi secondari.
“Se avete letto, anche solo un po’ di fretta, uno dei capitoli centrali dei Promessi Sposi, Marta ve la siete persa senz’altro: è citata solo tre volte, e poi scompare. – dice Marco Ghelardi - Ma, e qui sta il cuore del nostro piccolo enigma, Marta è l’unica che ha un nome proprio in un luogo dove non ce l’ha nessuno: nel castello dell’innominato ci sono infatti solo soprannomi (Tanabuso, Nibbio), o nomi comuni (il ragazzo, la vecchia). Poi naturalmente c’è l’innominato stesso, che è il simbolo narrativo e linguistico della raffinata omertà manzoniana. Solo per Marta l’autore fa un’eccezione. E solo nei “Promessi Sposi”: nel “Fermo e Lucia”, il romanzo precedente, che Manzoni trasformò nella sua opera maggiore, Marta non ha un nome.
Lo spettacolo nasce dalla domanda: “Ma perché Marta, solo Marta, ha un nome?” e dall’occasione di creare un giocoso omaggio ai “Promessi Sposi”, una delle grandi opere della letteratura, non solo italiana. Capisco che Manzoni possa essere antipatico: sa di monumento, di sala di biblioteca, di scuola superiore: Manzoni condannato a quell’oltretomba letterario, che forse è paradiso ma forse no, fra il libro Cuore e il Pio Bove. Questo, a chi adolescente ha subito Manzoni come una inesplicabile condanna al tedio e l’ha riscoperto da adulto, quale scrittore adulto per adulti - cioè a me - questo spiace, perché non c’è scrittore che sia più urgente da leggere per qualunque italiano dal 1840 a oggi. Per quello che dice, sul potere e sull’individuo, ma soprattutto su come lo dice. Nei vent’anni durante i quali trasforma “Fermo e Lucia” nei “Promessi Sposi”, Manzoni incessante lima e smorza la lingua e il racconto, ben oltre la semplice fiorentinizzazione. Evita trucchetti ed effettacci, ricerca spasmodico concretezza e precisione. Gli piacciono le cose semplici, e le parole usate, e gli piace adoperarle bene, soprattutto combinarle in modo nuovo e sorprendente. Far questo è difficile, difficilissimo: scimmiottare l’ampollagine è facile (e, in ultimo, mistificatorio). E in una letteratura stomachevole e rigurgitante come quella che ci troviamo addosso non appena nati, non so trovar lezione più preziosa di chi ha trascorso vent’anni a far questo: se proprio non riesce ad allargare le stanze anguste della nostra storia letteraria, almeno apre una finestra, uno spiraglio che ti fa vedere oltre, e ti indica la via. Bene, luci, musica, pubblico, scene, tutto è pronto, e anche Marta, dietro le quinte, lo è. C’è solo un problema. E’ un personaggio secondario, ma nessuno glielo ha detto”.