In articolo sull’edizione odierna di Teatro Naturalehttp://www.teatronaturale.it/strettamente-tecnico/l-arca-olearia/11301-salviamo-l-olivicoltura-italiana.htm,
l’amico e collega Luigi Caricato lancia un invito al dialogo alle tante anime del dibattito attorno all’olio extravergine e alle sue più che problematiche prospettive di sopravvivenza. Mi unisco al coro con un appello: meno zen, più concretezza.
Caro Luigi,
come sai seguo sempre con passione e coinvolgimento – anche se, per varie ragioni, in modo forse più silenzioso di prima – tutti i dibattiti che ruotano attorno all’olio di oliva e all’olivicoltura.
Leggendo il tuo articolo di oggi su TN (“Salviamo l’olivicoltura italiana”) mi si sono addensate in testa tutta una serie di considerazioni, che ti offro. Senza entrare nel dettaglio delle diverse posizioni, c’è una cosa che mi allarma. Da qualunque prospettiva venga affrontato l’argomento, i temi finiscono per convergere sempre su un punto, a mio avviso fuorviante: la strumentalità della coltivazione dell’olivo e della produzione dell’olio rispetto a qualcosa. Alla salvaguardia del paesaggio, ad esempio. Alla tutela della tradizione. Alla difesa del reddito. Al sostegno dell’economia (rurale e non). Alla garanzia della qualità degli alimenti. Alla certificazione dell’origine.
E potrei andare avanti.
Tutte cose giuste, per carità.
Ma credo che per questa strada non si arrivi da nessuna parte. E si cada nell’ipocrisia retorica (o nella retorica ipocrita) che accompagna tante altre analoghe, stucchevoli campagne alle quali da anni stiamo assistendo, tipo quella del “mestieri scomparsi”: dove si gabella l’idea oleografica (di per sé anche culturalmente valida, non lo discuto) che salvare gli ultimi maniscalchi, o gli ultimi bronzisti, o gli impagliatori superstiti crei sic et simpliciter un volano, un’economia. O aiuti a sostenerne una. O giustifichi, anzi sorregga l’esistenza di qualcosa.
Ma quando mai.
Ecco, con l’olio e l’olivo succede lo stesso.
Certo, è ovvio che tradizione, qualità, paesaggio e tutto quanto sopra sono valori importantissimi.
Ma un settore produttivo non può vivere solo “in funzione” di qualcos’altro.
Affinché il comparto oleicolo sopravviva nella sua magnifica diversità fatta di grande e di piccolo, di intensivo e di estensivo, di marginale e di specializzato, di dopolavoristico e di professionale, di collina e di pianura, di nicchia e di massa, di monovarietale e di multivarietale occorre che abbia un senso più ampio, una propria ragione di esistere. Che non sia cioè solo museo o nostalgia o frutto di un accanimento terapeutico, ma realtà. Che abbia sua intrinseca capacità di vita quotidiana, ovvero logica ed economica insieme. Ove male e ove bene, ove meglio e ove peggio, d’accordo. Ma nella realtà, altrimenti si fa solo accademia.
Non credo affatto, per capirsi, che l’olivicoltura imprenditoriale, premessa inevitabile ad una virata capitalistica e industriale (quindi fatalmente antirurale), sia l’unica via percorribile. Ma non credo neppure all’olivicoltura zen, idealistica, ideologica perfino, che si sente predicare in giro. Nemmeno i monaci medievali, nemmeno i mistici praticavano l’agricoltura a perdere: essa era esercizio spirituale, sì, ma anche fonte di sostentamento. I due piani finivano per sovrapporsi. Quindi non vedo perché, nel mondo materialista e interconnesso di oggi, dovrebbero praticarla gli agricoltori, inseguendo il sogno etico di un’olivicoltura a priori.
Mi dirai: e allora? Dove vuoi arrivare?
Le mie potranno sembrare banalità, ma non credo che lo siano.
L’olivicoltura italiana – quella che mi sforzo di considerare ancora l’olivicoltura per eccellenza, la più antica, la più ricca, la più variegata, la più complessa, la migliore insomma e nonostante tutto – non ha bisogno di sola teoria o di solo materialismo, ma di sana materialità. Cioè di concretezza. Di una ragione anche “pratica” di esistere: offrire un reddito ragionevole (che non è per forza un profitto), una gestibilità ragionevole, prospettive di sopravvivenza (dello “sviluppo” chi se ne frega) ragionevoli, un fabbisogno di sforzi, fatica e passione ragionevole.
Visto dal punto di vista del buon padre di famiglia ciò è molto semplice, quasi implicito.
Diventa difficile quando va in mano a soloni, moralisti, politici, teoreti, pubblici amministratori, burocrati e manager.
Per favore,usciamo da queste secche.
Buona Pasqua
Stefano Tesi (nella foto) si presenta così:
Mi chiamo Stefano Tesi, faccio il giornalista e questo è il mio blog. Per fortuna, tanto nella vita che nel mio sito www.stefanotesi.it, non mi occupo solo di giornalismo. Mi occupo, anche e soprattutto, delle mie passioni e delle mie ossessioni. Le quali solo talvolta sono o diventano un lavoro: la musica (hey hey, my my, r’n'r can never die), i viaggi, i libri, le tradizioni, gli stili di vita, la società, le idee, il paesaggio, il mondo rurale, l’agricoltura, il vino con annessi e connessi, i beni culturali, il costume, l’Inter (eh già!), il calcio, lo sport, sole&acciaio. E poi di libera professione giornalistica, ovviamente: da oltre vent’anni è il mio lavoro. Il mio chiodo fisso è invece salvare dalla rovina il natio borgo selvaggio nelle Crete Senesi.
Il parlar aspro? Diciamo che mi viene facile. Come in “Quasi Famosi” Lester Bangs dice al giovane aspirante collega: “Sii onesto. Onesto e spietato”. Ecco, così io, nel parlar, voglio esser aspro.
Aspro ma educato: questo è un blog amministrato, nel quale non utilizzerò mai espressioni offensive e nel quale nessuna espressione offensiva sarà tollerata.
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Un’ultima nota, ma importante: in quanto supplemento di una testata giornalistica, questo blog è a tutti gli effetti uno strumento giornalistico e risponde alle norme deontologiche relative alla professione giornalistica. E’ una questione di responsabilità verso i lettori e l’opinione pubblica in generale. Nel campo del blogging, non so se sia un caso unico. Ma è certamente raro.