I Comuni italiani non hanno il potere di vietare o limitare l’attività di locazione turistica breve quando questa è svolta da privati in forma non imprenditoriale. È quanto stabilito dalla sentenza n. 2928/2025 del Consiglio di Stato, che ha chiarito in modo netto i confini tra affitto turistico e attività ricettiva, distinguendo i diritti dei proprietari privati dalla regolamentazione che riguarda le imprese del settore.
Secondo i giudici amministrativi, le locazioni turistiche gestite da privati non costituiscono strutture ricettive e, di conseguenza, non sono soggette alla normativa specifica che regola tali attività. La sentenza sottolinea inoltre che, in assenza di una legge nazionale che disciplini in modo organico gli affitti brevi privati, le amministrazioni comunali non possono introdurre regolamenti che limitino tale libertà contrattuale.
Il pronunciamento prende le mosse da un caso sorto nel 2022 nel Comune di Sirmione, in provincia di Brescia. L’amministrazione locale aveva adottato un regolamento che imponeva vincoli alla locazione turistica privata, prevedendo l’obbligo di presentare documentazione ulteriore oltre alla semplice Comunicazione di inizio attività (Cia), richiesta dalla normativa regionale. Un’interpretazione accolta inizialmente anche dal TAR, che aveva riconosciuto — erroneamente, secondo il Consiglio di Stato — il potere al Comune di subordinare l’attività alla presentazione della Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), prevista invece solo per le attività con finalità imprenditoriali.
La vicenda è sfociata in un contenzioso dopo che l’amministrazione aveva rigettato la richiesta di un privato cittadino, intenzionato ad affittare il proprio immobile a fini turistici in modo non professionale, limitandosi a inviare la Cia. La risposta negativa del Comune ha dato origine al ricorso che ha portato all’odierna sentenza.
Il Consiglio di Stato ha ribadito che la legge regionale lombarda n. 27 del 2015 (modificata nel 2024) distingue chiaramente tra affitti gestiti in forma imprenditoriale — per i quali è richiesta la Scia — e quelli gestiti da privati, soggetti unicamente alla Cia. Pertanto, “l’attività di locazione turistica esercitata in forma non imprenditoriale è espressione del diritto di proprietà e della libertà contrattuale del cittadino”, e non può essere limitata da interventi prescrittivi delle amministrazioni locali.
Nella sentenza si legge, inoltre, che tali locazioni “non rientrano nel campo applicativo dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990”, ovvero la normativa generale sui procedimenti amministrativi, e non possono essere oggetto di poteri inibitori da parte dei Comuni. I giudici ribadiscono anche che, nel quadro normativo attuale, gli immobili concessi in locazione breve non possono essere assimilati alle strutture ricettive, rimanendo così esclusi dalla relativa disciplina.
Nonostante il quadro normativo chiarito dalla sentenza, diversi Comuni hanno cercato negli ultimi anni di regolamentare gli affitti brevi con provvedimenti locali. Le ragioni variano in base al contesto territoriale: nelle città d’arte come Firenze e Venezia, ad esempio, il fenomeno dell’overtourism ha spinto le amministrazioni a cercare strumenti per contenere l’eccessiva pressione turistica, tra cui proprio il controllo degli affitti brevi.
In altre realtà urbane come Milano, Roma o Bologna, invece, la questione è prevalentemente legata alla disponibilità di alloggi per i residenti e per gli studenti o lavoratori fuori sede. La crescita esponenziale degli affitti brevi ha sottratto immobili al mercato della locazione tradizionale, contribuendo all’aumento dei canoni e rendendo più difficile trovare un’abitazione a lungo termine.
Tuttavia, con la sentenza del Consiglio di Stato, i margini di manovra dei Comuni risultano fortemente ridimensionati: in assenza di una legge nazionale specifica, i regolamenti locali non possono incidere su un’attività che resta espressione di un diritto individuale costituzionalmente tutelato.