Il vento di protesta si è spostato dalle campagne al cuore dell'urbanesimo europeo, portando con sé nel rombo dei trattori il profondo malessere di un settore che si sente abbandonato da decenni. Non è solo una questione di politiche ambientali o di esenzioni fiscali, come l'Irpef, recentemente al centro di controversie per la sua cancellazione dall'ultima Legge di Bilancio. È una crisi di rappresentatività, un grido di allarme che echeggia oltre le politiche dell'Unione Europea, toccando le radici stesse dell'identità agricola.
Le manifestazioni vedono tricolori e trombe da stadio sfilare verso il cuore della Capitale, con l'obiettivo di un assalto simbolico all'Urbe, e rappresentano una sfida al sistema, sul modello della spettacolare iniziativa per le strade di Bruxelles che tanto ha incendiato i social (non tanto, prevedibilmente, il mainstream sordo). La tentazione di ridurre il tutto a uno scontro manicheo tra buoni contadini e cattive burocrazie è forte. Ma l'agricoltura italiana, ed europea in generale, è un mosaico di realtà disparate, dove convivono giganti dell'agroindustria, beneficiari di milioni in aiuti, e piccole realtà familiari che preservano la biodiversità e la bellezza dei territori con fatiche certosine.
La Commissione Europea ha risposto alla mobilitazione annunciando una proroga delle deroghe alla PAC, una misura accolta positivamente come segno di volontà al dialogo. Ursula von der Leyen ha sottolineato l'importanza degli agricoltori per la sicurezza alimentare e le zone rurali dell'UE, promettendo equilibrio tra le esigenze dei coltivatori e gli obiettivi ambientali. E probabilmente, ancora una volta, ha parlato agli interlocutori sbagliati.
Le proteste degli agricoltori si inseriscono in un contesto dove poche entità finanziarie e multinazionali dominano la catena di produzione alimentare, dai semi ai fertilizzanti alla distribuzione finale. Emblematica è la vicenda della multinazionale Lactalis, che ha riscritto unilateralmente i contratti con gli allevatori, simbolo di una pratica sempre più diffusa di sfruttamento dei piccoli produttori. Da qui in poi si è coagulato e organizzato il dissenso sfociato nei cortei.
La transizione ecologica, spesso invocata come panacea, si trasforma in un cavallo di Troia per politiche che sembrano più orientate al profitto che al benessere collettivo. Il Green Deal, al netto delle polemiche intorno ad una climatologia ideologizzata, viene percepito come il grande affare di questi anni pieno di congiure.
L'Italia, con le sue eccellenze agroalimentari, si trova di fronte a un paradosso amaro: mentre i prezzi al consumo per i prodotti alimentari volano, gli agricoltori vedono ridursi il valore dei loro prodotti ben al di sotto dei costi di produzione. Secondo Coldiretti, i produttori agricoli subiscono una penalizzazione del 10,4% sui prezzi rispetto all'anno precedente, in un contesto globale che vede diminuzioni ancora più marcate.
Il problema non è solo nelle politiche agricole comunitarie o nelle normative ambientali, ma in una storica disparità contrattuale che vede la grande distribuzione organizzata esercitare un potere soverchiante sulle piccole realtà agricole. La forbice tra i costi di produzione e i prezzi di vendita ai consumatori non è mai stata così ampia, trasformando il pane quotidiano in un lusso per alcuni e una beffa per chi lo produce.
Se con un chilo di grano circa, dal quale si ottengono circa 800 grammi di farina da impastare, si fa un chilo di pane, quel chilo di grano viene pagato 24 centesimi agli agricoltori; per un prodotto che viene venduto al consumatore a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città. Non si tratta solo di negoziare deroghe o di reintrodurre esenzioni fiscali, ma di riconoscere il valore intrinseco dell'agricoltura come custode della terra e della cultura. Un valore che va pagato.