Attualità - 30 settembre 2023, 12:55

Russia – Nato: Un tempo partners ora nemici

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

Nell'articolo “E' sempre più AmericaNATO”, pubblicato la scorsa settimana, abbiamo accennato che alla fine degli anni '90, la NATO avviò un processo di avvicinamento alla Confederazione Russa, nuova entità statuale sorta dalle macerie della disgregazione dell'Unione Sovietica.

Vale la pena approfondire, nei suoi momenti fondamentali, quel periodo di storia moderna che determinò l'insorgenza della speranza per l'Europa di poter godere di un nuovo ciclo storico di pace e distensione che, invece, sta miseramente naufragando in maniera definitiva, dopo l'aggressione della Russia all'Ucraina.

Sino a poco più di dieci anni fa, le posizioni di dura contrapposizione,assunte da Putin e Biden, nei mesi immediatamente precedenti alla guerra, erano a dir poco inimmaginabili, visti i rapporti che intercorrevano tra l'Alleanza Atlantica e la Russia, nonostante la NATO avesse già avviato il suo processo di allargamento verso est.

Infatti, vinta senza sparare un colpo la “Guerra Fredda” contro l'Unione Sovietica ed il suo sistema, l'Alleanza Atlantica rimase la sola ed unica Alleanza politico-militare al mondo, in grado di assumere decisioni e di tradurle in attività militari, anche solo con funzioni di credibile deterrenza. Pertanto, in tale posizione di forza, a partire dal 1989, anno di disgregazione del Patto di Varsavia, la NATO iniziò un processo di allargamento verso est dei suoi confini, attraverso l'ammissione di Nazioni che appartenevano al blocco opposto.

La prima significativa espansione si realizzò in maniera indiretta, attraverso la riunificazione della Germania, che portò i territori della ex Repubblica Democratica tedesca sotto l'ombrello della NATO.

Successivamente, nel 1999, l'Alleanza Atlantica inglobò Polonia, Ungheria e Repubblica Ceka, proseguendo poi nel 2004, con Slovacchia, Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania ed Estonia. L'avanzata “pacifica” della NATO verso est continuò a svilupparsi progressiva ed inesorabile e, mediante l'annessione delle Repubbliche Baltiche, arrivò a tangere direttamente un lungo tratto settentrionale del confine con la Russia e ad accerchiare il suo enclave di Kaliningrad.

Appare chiaro quindi che la contestazione di Putin alla NATO, poco più di un anno fa, di essersi avvicinata troppo ai suoi confini, arrivando a farne un motivo di attacco all'Ucraina, in realtà si era già realizzato nel 2004 con Lettonia ed Estonia, ma non aveva irritato più di tanto la Russia, che continuò a perseguire una politica di collaborazione con l'Alleanza Atlantica.

Questo orientamento alla distensione nasceva il 28 giugno 1997 a Parigi, con la firma del “Founding Act on mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation”, documento di fondamentale valore, firmato sotto gli sguardi soddisfatti dei Presidenti Clinton ed Eltsin e del Segretario Generale della NATO Solana.

Le finalità dell'accordo erano intrise di buone intenzioni, perchè si proponevano di “achieving a true strategic partnership, based on reciprocal confidence, transparency and predictability, with the aim of contributing to the creation of a common space of peace, security and stability.”. Concetti come “reale collaborazione strategica”, “reciproca fiducia, trasparenza ed affidabilità” e “creazione di un condiviso spazio di pace, sicurezza e stabilità”, costituivano un'eccezionale volontà concettuale, per lo sviluppo di una cooperazione strategica, in grado di risolvere molti problemi globali ed evitare la creazione di altri.

Questa via del buon senso e della pace, si rinvigoriva nel maggio 2002 in Italia, con la firma della cosiddetta “Dichiarazione di Roma”, ufficialmente denominata “NATO – Russia Relations: New Quality”, che istituiva il “NATO Russia Council”, un forum permanente, in cui NATO e Russia si sarebbero incontrate periodicamente per perseguire “consensus building joint decision and joint action”. I firmatari delle parti erano nel frattempo cambiati, perchè per gli USA siglò l'accordo il Presidente George W Bush e per la Federazione Russa il Presidente Vladimir Putin, che alla fine del 1999 era subentrato a Boris Eltsin.

Pertanto, neanche l'ingresso di due nuovi protagonisti aveva mutato l'intento di proseguire sulla via della collaborazione, come dimostrarono i sei anni successivi, in cui la cooperazione proseguì, pur tra fisiologici alti e bassi dovuti, da una parte, alla politica occidentale verso il Medio Oriente che, per volere americano, portò all'attacco dell'Iraq ed alla eliminazione di Saddam Hussein. Dall'altra parte, dal progressivo ritorno sulla scena mondiale del ruolo di Super Potenza della Russia, corroborato dal graduale superamento della crisi economica post “disgregazione” e dalla forte personalità di Putin, che non peccava certo di preparazione ed esperienza, per proporsi come leader globale.

Il 2008 fu l'anno in cui due eventi crearono i presupposti per la successiva involuzione della collaborativa convivenza tra la Russia e l'Occidente. Da parte americana, irrompeva sulla scena il nuovo Presidente USA Barack Obama, il quale, pur dichiarando di volere “una Russia forte, pacifica e prospera”, in realtà mostrava evidenti preoccupazioni verso la rete di relazioni economico-commerciali, sempre più fitta e prospera, che si stava tessendo tra la Russia e gran parte delle Nazioni europee, compresa l'Italia e che determinava la superiorità dell'Euro sul Dollaro, conseguenza indigesta per gli Americani.

Da parte russa, in agosto, la Georgia, guidata del Presidente Saakashvili, invadeva l’Ossezia del Sud, una regione autonoma del suo territorio che confina a nord con la Russia e che da tempo rivendicava il riconoscimento della propria indipendenza.

La Federazione Russa rispondeva con un intervento militare rapidissimo e in una settimana sconfiggeva le truppe georgiane respingendole fino quasi alle porte della capitale Tbilisi. Veniva quindi firmato un cessate il fuoco, che impegnava la Russia a ritirarsi dal territorio georgiano e la Georgia a rinunciare all’uso della forza contro l’Ossezia e l’Abcasia. Ma immediatamente dopo, la Russia proclamava unilateralmente una zona cuscinetto attorno alle due repubbliche, senza ritirare le proprie unità militari. Era l'atto che consacrava il ritorno della Russia sulla scena internazionale, come potenza mondiale.

Gli anni successivi registrarono varie situazioni di crisi, che cominciarono a porre in contrapposizione Russia e Stati Uniti, come le cosiddette Primavere Arabe, movimenti di rivolta che presero avvio dal famoso discorso del 2009 di Obama all'Università del Cairo e che tentarono la destabilizzazione di regimi nella sfera russa. Nel 2011, si sviluppò l'attacco alla Libia, con l'uccisione del leader Gheddafi e iniziò la guerra civile in Siria, in cui gli Americani appoggiavano i ribelli e la Russia supportava il Presidente Bashar al Assad.

Nonostante tutto, il 21 maggio 2012, il Ministro degli Esteri russo Lavrov partecipava al Summit NATO di Chicago, parlando ancora di “True strategic Partnership between NATO and Russia” e l'Alleanza esprimeva soddisfazione per i progressi della collaborazione con la Russia nella lotta al terrorismo, prevedendo la prima esercitazione congiunta del Consiglio NATO – Russia.

Venivano anche definiti accordi tra le due parti sia per il sostegno dell'operazione NATO in Afghanistan, per il conseguimento di una maggiore stabilità nella regione dell'Asia centrale sia per una migliore collaborazione nella lotta alla pirateria nel Corno d'Africa.

Quindi, ancora nel 2012, la situazione tra NATO e Russia era caratterizzata da un clima di sostanziale collaborazione e di dialogo. in cui, ovviamente, non mancavano i motivi di divergenza. La NATO sollecitava la Russia a rispettare gli impegni presi con la Georgia e condannava il rafforzamento della sua presenza militare sul territorio georgiano. Inoltre, stigmatizzava una contrariata preoccupazione in merito agli schieramenti militari russi, in prossimità delle frontiere dell'Alleanza Atlantica.

Quindi, nel 2012, in maniera un po' paradossale la NATO si lamentava con la Russia perchè le sue truppe erano troppo vicine ai suoi confini, senza considerare che, in fondo, sarebbe stato più giusto pensare che fosse stata proprio l'Alleanza che aveva decisamente avvicinato i suoi confini alle truppe russe.

Infatti, se all'estremo nord, la neutralità di Finlandia e Svezia garantiva una “funzione cuscinetto” tra NATO e Russia, storicamente accettata da quest'ultima, dal Mar Baltico in direzione sud, la situazione era ben diversa. Con l'ammissione delle tre Repubbliche Baltiche, l'Alleanza era arrivata a toccare il confine russo per circa 600 chilometri, per cui rimanevano Bielorussia, Ucraina, Mar Nero e Georgia, a costituire una fascia territoriale di interposizione, probabilmente giudicata dalla Russa non ottimale, ma ancora accettabile.

Tuttavia, va evidenziato che con Georgia ed Ucraina, la NATO aveva già avviato un dialogo per l'eventuale loro ammissione nell'Alleanza, per cui l'eventuale successo di questa ennesima annessione, avrebbe ulteriormente ridotto il cuscinetto con la Russia.

La Georgia proclamò la sua indipendenza nel 1991 e già l'anno seguente l'Alleanza Atlantica avviò le relazioni necessarie per l'adesione al North Atlantic Cooperation Council, che portò la Nazione georgiana ad entrare nel programma Partnership for Peace nel 1994. Successivamente, la Georgia presentò la richiesta per l'ingresso nella NATO come Stato Membro, ricevendo il consenso per l'avvio del processo di valutazione dei requisiti nel 2008 al Summit di Bucharest e, contestualmente, venne istituita la NATO – Georgia Commission, con il compito di conseguire i requisiti per l'ingresso.

I successivi Summit del 2014 in Galles, del 2016 a Varsavia e del 2018 a Brussels confermarono il positivo andamento del processo di ammissione anche se, nel 2020, il Substantial NATO-Georgia Package, inteso come iter di valutazione delle ambizioni della Georgia, fu aggiornato con una revisione estensiva dei tempi e delle modalità di promozione a Membro effettivo.

Probabilmente, la NATO si rese conto che rispettare gli accordi con la Georgia originalmente previsti, l'avrebbe portata ad un coinvolgimento diretto in una situazione a dir poco problematica, visto che le regioni dell'Ossezia e della Abkhazia, in cui permanevano truppe russe, erano state dichiarate “zone occupate” dalla stessa Georgia la quale, pertanto, confermava di non volervi assolutamente rinunciare.

La questione ucraina é tutta un'altra storia, visto il suo peso strategico nell'area. Il suo percorso verso la NATO è stato decisamente più accidentato e altalenante, perché dipendente dall'alternanza della politica interna, sempre in bilico tra l'influenza della confinante Russia e la spinta di una buona parte della popolazione verso un'adesione all'area occidentale.

Tuttavia, lo scenario politico dell'Ucraina subì una svolta determinante nel 2010, con l'elezione a Presidente di Viktor Yanukovich, originario dell'Oblast di Donec'kn e filo russo, che decise di sospendere l'iter di ammissione all'Alleanza, che si era avviato nel 2008.

Dopo i primi due anni di ripresa economica, un rallentamento portò Yanukovych a riprendere in considerazione i negoziati per un accordo di ingresso nell'Unione Europea, avviati dal suo predecessore sempre nel 2008. 

Non si trattava però di una scelta semplice, anche perchè, contraddicendo quanto propagandato dalla stampa occidentale, la popolazione ucraina era sostanzialmente divisa in due, con un 41% favorevole all'ingresso in UE, contro un 35% favorevole alle proposte russe, che prevedevano l'accesso all’Unione Economica Eurasiatica, un consorzio doganale tra cinque ex-repubbliche sovietiche, inclusa la Russia.

L'alternativa europea non comportava solo gli aspetti commerciali, ma anche l'adeguamento ai criteri occidentali in settori come immigrazione, lotta al terrorismo, giustizia, lotta alla corruzione e rispetto dei diritti umani.

Tali riforme, pur se rispondenti ai moderni criteri di convivenza civile, comportavano costi elevatissimi, inoltre l'accordo prevedeva che l'Ucraina accettasse aspre misure di austerità imposte dal Fondo Monetario Internazionale, tra cui l'elevazione dell'età pensionabile, il congelamento di pensioni e salari e l'aumento del prezzo del gas. Tutte misure pressoché proibitive per un'economia già traballante e sull'orlo di una crisi.

Yanukovych tentò comunque una trattativa con la UE, mai chiaramente pubblicizzata dai Media occidentali, ma incontrò un atteggiamento di netta intransigenza, mentre dall'altra parte, il Presidente Putin rilanciava le sue proposte, proponendo un pacchetto di sostegno di 15 miliardi di dollari, tra aiuti e forniture energetiche, senza alcuna condizione.

Questa offerta convinse il leader ucraino a sospendere le trattative UE e valutare concretamente la sponda russa, due decisioni che provocarono proteste, che progressivamente si intensificarono, sino a sfociare in violenti scontri a gennaio 2014, in un movimento di rivolta denominato Euromaidan

Secondo i sondaggi, tale rivolta non incontrò il favore della maggioranza degli Ucraini, soprattutto nelle regioni meridionali ed orientali, ma questo non contò molto per le diplomazie occidentali, che si accodarono alla visione americana che, probabilmente, aveva già una propria idea di come si sarebbe dovuta evolvere la situazione.

A febbraio, le proteste assunsero forma di vera e propria rivolta popolare, con eventi sempre più sanguinosi, con vittime e feriti da entrambe le parti, tanto da suscitare posizioni di condanna da parte dell'ONU, della UE e, ovviamente, degli Stati Uniti.

Il 18 febbraio le violenze provocarono 28 morti, tra cui 7 poliziotti e 335 feriti, ma fu il 20 febbraio che avvenne l'escalation definitiva, con l'assalto ai palazzi del Governo e del Parlamento. Molti agenti vennero colpiti dal fuoco di cecchini e la reazione fu violentissima, con decine di persone uccise e centinaia ferite.

Il bagno di sangue e le pressioni della Comunità internazionale, capeggiata dagli Stati Uniti, che furono poi accusati dalla Russia di aver fomentato e supportato la rivolta, portarono le parti contrapposte ad un accordo, che prevedeva l'istituzione di un Governo di Unità Nazionale che traghettasse il Paese alle elezioni anticipate. Ma l'epilogo finale si consumò il 22 febbraio con l'assalto al Palazzo Presidenziale e l'imposizione delle dimissioni a Yankovich che, ormai isolato, abbandonò precipitosamente l'Ucraina.

La rivolta si concluse il 23 febbraio 2014, con la nomina alla Presidenza dell'Ucraina di Oleksandr Turčynov. Per il Primo Ministro, furono forti e comprovate le ingerenze americane, che imposero il 27 febbraio 2014 Arseniy Petrovich Yatsenyuk.

Questi furono i risultati di un'azione americana, la cui regista fu Victoria J. Nuland, diplomatica di grande esperienza, che non solo promosse le proteste, ma vi partecipò attivamente, nonostante il chiaro coinvolgimento di gruppi ultranazionalisti e neonazisti.

Famosa la registrazione, diffusa in tutto il mondo da Youtube, della telefonata intercorsa tra lei e l'Ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt, che le suggeriva di consultare i partners europei, in merito alla scelta di Arseniy Petrovich Yatsenyuk come Capo del governo. La sua risposta “Fuck the EU” al diplomatico fu tanto laconica quanto eloquente sulla sua visione americano-centrica delle cose del mondo.

Ma d'altra parte, l'ignavia cronica delle leadership dei Paesi europei e della stessa Unione Europea probabilmente meritavano un simile trattamento, visto che Angela Merkel e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, si limitarono a commentare come “assolutamente inaccettabili” le parole della Nuland, certificando la fallimentare sottomissione morale verso gli USA ed il conseguente fallimento politico dei governi europei.

Le successive regolari elezioni del 25 maggio 2014 portarono Petro Oleksijovyč Porošenko, del partito “Solidarietà europea”, alla Presidenza dell'Ucraina. Nei suoi 5 anni di reggenza, iniziò a contrastare il movimento ribelle filo-russo, confinandolo in Dombass, avviò il processo di integrazione con l'Unione Europea e rinnovò la richiesta di adesione alla NATO, sospesa da Viktor Yanukovich 4 anni prima. 

La crisi Russo – Ucraina, che sarebbe arrivata alla guerra, si era avviata e la regia sembrava essere saldamente nelle mani USA, i cui intenti erano quelli di non mollare la presa e, probabilmente, di usare questa crisi in un quadro geo-strategico globale.

Contestualmente, sprofondavano anche le relazioni tra la NATO e la Russia, vanificando anni di trattative, di accordi e di contatti.

A conclusione, ritengo utile e significativo riportare le dichiarazioni di un grande protagonista della storia politica recente degli Stati Uniti d'America, l'ex Segretario di Stato Henry Kissinger il quale, il 5 marzo 2014, di fronte a quanto gli USA stavano facendo in Ucraina, scrisse l'articolo per il Washington Post “To settle the Ukraine crisis, start at the end - Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine”. In sintesi, il grande statista sosteneva un’Ucraina nell'Unione Europea, ma non nella Nato perchè, a suo parere, sarebbe dovuta essere una Nazione “finlandizzata”, cioè indipendente, in gran parte cooperante con l'Occidente, ma senza alcuna ostilità verso la Russia.

Sottolineava inoltre che “l’Ucraina non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra, ma funzionare come un ponte tra loro”, che la Russia «deve capire che cercare di costringere l’Ucraina a uno status di satellite condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia ciclica di pressioni reciproche con l’Europa e gli Stati Uniti» e che «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero”.

Infine, affermava che per l’Occidente, “la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica” e che “La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi”. Tutti concetti di assoluto buon senso geo-strategico, lungimiranti e condivisibili a parte, forse, il discorso sull'isolamento della Russia, di cui parleremo in un prossimo articolo.

Marcello Bellacicco