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Sanità | 27 settembre 2023, 08:15

LETTERE DAL COVID /1 - "Due giorni da medico e più di trenta da paziente"

Paura, insicurezza, bisogni, speranze e una profusione di straordinaria umanità: i sentimenti che si intrecciano al tempo del Covid-19 nel periodo di massima drammaticità dei ricoveri saltano fuori come un pugno nello stomaco dagli scritti di alcuni operatori sanitari, che hanno voluto mettere nero su bianco il turbinio di sensazioni vissute in prima persona

LETTERE DAL COVID /1 - "Due giorni da medico e più di trenta da paziente"

Da una dottoressa anestesista in Rianimazione

Non ho ancora capito se sono stata privilegiata, avendo vissuto l’esperienza Covid nella duplice veste di medico e paziente. Il mio primo incontro con il virus è avvenuto Lunedì 9 marzo 2020, in modo violento, come un temporale improvviso. Avevo lasciato l’ospedale il Venerdì in una situazione di normalità e, dopo soli 2 giorni, mi sono ritrovata in quello che sarebbe stato l’inizio dell’inferno. Prendendo consegne, mi dicono che c’è in Pronto Soccorso una paziente COVID+, sta male, deve essere intubata e trasferita all’Ospedale di Voltri.

Per un attimo, c’è il vuoto. Quel nemico lontano di cui, fino a quel momento, avevo solo sentito parlare, è qui a pochi metri e ho improvvisamente paura. Ho paura di contagiarmi ma, soprattutto, di non essere in grado di mantenere quella calma che ti consente di lavorare in sicurezza, anche se qui di sicuro non c’è proprio niente: tutto è nuovo e sconosciuto. Inizio titubante per la prima volta a vestirmi e mi rendo subito conto che non è facile respirare dentro a quella maschera, sotto la visiera; ho paura di non farcela e invece ci riesco, rimanendo vestita così fino a mezzanotte quando finalmente rientro dal trasporto in ambulanza della signora che ho dovuto intubare. Un trasporto terribile, fatto di tempi infiniti e dilatati, di imprevisti tecnici, di incertezze organizzative, frutto di una traballante procedura scritta, messa in pratica forse per la prima volta e sicuramente da rivedere. Torno a casa stanca, arrabbiata, provata ma con la certezza di potercela fare perché, dopo quello che ho vissuto in questo pomeriggio infinito, non mi ferma più nessuno.

Quando arrivo a casa, però, Paolo, mio marito, ha la febbre. Due giorni dopo, anche io ho la febbre e qui termina la mia brevissima “carriera” di medico COVID e inizia ufficialmente quella di paziente affetta da Coronavirus.

Le prime settimane di malattia sono state difficili, abitate da sentimenti di angoscia e da un persistente senso di impotenza. Essere in isolamento domiciliare con tampone positivo per Covid-19 vuol dire che tu non puoi vedere nessuno e nessuno può entrare in casa tua. Nemmeno il medico di base che ha paura di contagiarsi perché non ha i DPI. La prima telefonata dell’Ufficio Igiene, che avrebbe dovuto effettuare quotidianamente la sorveglianza attiva, è arrivata dopo 20 giorni, a sintomatologia già in riduzione. Nessuna chiamata prima. Nessuno ti dice cosa fare, non c’è alcuna certezza nelle terapie, devi solo attendere e pregare che non arrivi l’insufficienza respiratoria. Io sono medico e ho potuto visitare Paolo, ma nessuno ha mai visitato me, e in questo grande isolamento intriso di dubbi e nessuna certezza, ho più volte perso la lucidità. Il terrore che uno dei due peggiorasse e finisse nella solitudine ospedaliera di questi tempi mi ha tenuto ostaggio per molto tempo. Ho avuto paura per mio marito che è stato con la febbre alta per 8 giorni, sapendo che la persistenza della febbre è l’anticamera del tracollo respiratorio; ho avuto paura per me, una mattina quando, in ottava giornata, sembrava che l’aria non ne volesse sapere di entrare nei polmoni e ho vissuto per la prima volta quella angosciante sensazione di “fame d’aria” che prima di allora avevo visto solo sugli altri, nelle tante chiamate per codice rosso respiratorio.

Sono stata, però, una privilegiata perché sono medico e tramite contatti informali con l’infettivologa del mio ospedale sono riuscita ad avere una terapia che quasi tutti i pazienti su territorio, almeno all’inizio di questa vicenda, non sono riusciti ad ottenere. Ma sono stata fortunata soprattutto perché in mezzo a questo totale isolamento da parte delle istituzioni non c’è stato un isolamento del cuore: ho sentito la vicinanza di tanti amici e di alcuni colleghi fidati che mi hanno aiutato a rimanere nei binari e a non perdere la testa nei momenti più bui; infermieri e OSS del mio reparto, parenti e conoscenti, che con messaggi e telefonate non ci hanno mai fatto sentire soli. E gli aiuti dei vicini di casa che continuano a portarci la spesa tutti i giorni da più di un mese. Ringrazio infinitamente tutte queste persone.

All’inizio di questa lettera scrivevo: “non so se sono stata fortunata oppure no”. È certo che avrei voluto essere in prima linea insieme agli altri e invece mi sono ritrovata caduta sul campo dopo la prima battaglia, vivendo pure sensi di colpa nel sentirmi quasi una privilegiata per il fatto di essere “in panchina” a casa. Ma poi penso che non ci posso fare niente, che è andata così perché la vita spesso fa come vuole lei e non come vorresti tu. E penso poi che una battaglia, tutto sommato, ho dovuto combatterla anche io, e, nonostante stia andando bene e io sia riuscita a potermi curare a casa, è stata comunque una battaglia dura e provante sotto molti aspetti.

Quindi, ancora non so se sono stata fortunata o no, so solo che è stato così e basta, e che ci sono delle infinite opportunità da cogliere sia nell’essere medico che nell’essere paziente. Ma l’opportunità più grande, l’opportunità salvatrice che accomuna entrambe le condizioni, è l’incontro con l’altro: la condivisione di quello che siamo, delle nostre paure, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, delle nostre difficoltà, è il migliore strumento a nostra disposizione per sopravvivere a questo “grande avvenimento” di cui ci siamo trovati involontari protagonisti.

Redazione

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