Attualità - 20 giugno 2021, 14:00

La Fiaba della Domenica: La grotta azzurra

La storia di Giuseppe, abitante di Querciopoli, ove il legno era la base di ogni attività, la base stessa della città, costruita sul legno e con il legno delle grandi querce che prosperavano numerose tutt’intorno

Nella vita di Giuseppe tutto era stato  duro come il legno, ma anche malleabile come il legno, plastico come il legno, forte e vivo come il legno.

Giuseppe era un falegname, un orso falegname.

Giuseppe viveva a Querciopoli, ove il legno era la base di ogni attività, era la base stessa della città, costruita sul legno e con il legno delle grandi querce che prosperavano numerose tutt’intorno, era la vita economica della città che forniva il legno di quercia a tutte le città vicine e lontane.

E Giuseppe era figlio di falegname, nipote di falegname, aveva sin da piccolo respirato l’odore del legno e il pulviscolo di segatura, aveva imparato tutti i segreti del lavorare il legno, di come renderlo una docile materia da forgiare, sempre viva, bella e resistente.

Il legno era la vita stessa per l’orso Giuseppe, così come per quasi tutti gli abitanti di Querciopoli, ma soprattutto il legno era la  fonte della dignità per Giuseppe, orso lavoratore di sani principi, fiero e felice della propria autonomia, con il sacro rispetto per la famiglia, conscio e contento di essere il capofamiglia.

Giuseppe, con il suo lavorare il legno, era fiero di mantenere e sostenere i suoi cari, l’amata moglie orsa Giulia e i suoi orsetti birichini, Birimbo e Birilla.

Giuseppe, come tutti, come tutti i maschi, aveva ogni tanto paura: paura di non essere un buon marito, un buon padre, un buon artefice del futuro dei suoi cari.

E questa paura passava per il suo vissuto di orsetto.

Molti anni prima, le querce di Querciopoli erano andate a fuoco, si disse per colpa di uno straniero che passava di là, e suo padre, l’orso Cedrone, aveva dovuto stare a casa dal lavoro.

Giuseppe ricordava con vivo sconforto e vivido terrore lo stato di prostrazione in cui era caduto suo padre Cedrone che aveva perso il lavoro.

Soprattutto Giuseppe ne ricordava gli occhi: la fissità degli occhi, la vacuità degli occhi, il giallore degli occhi erano divenuti un incubo per l’allora piccolo Giuseppe.

Il padre, il forte e vissuto da lui invincibile orso Cedrone, stava immobile per ore, perso, ricurvo, con il peso di una montagna sulle spalle, con il rifiuto dei timidi tentativi della moglie, sua madre, l’orsa Persefone, di rincuorarlo, di spronarlo, di riportarlo alla vita.

E il piccolo Giuseppe aveva giurato a se stesso che mai e poi mai sarebbe stato senza lavoro, mai e poi mai avrebbe costretto i suoi figli a vedere il padre in quella disfatta, mai e poi mai avrebbe instillato nei suoi cari l’incertezza del futuro e la paura di perdere ogni sicurezza e ogni certezza.

Per fortuna era durato poco.

Non tutte le querce erano andate distrutte e poi il legno era giunto dalla vicina città di Olmopoli: suo padre, l’orso Cedrone, era tornato al lavoro e con esso alla vita, aveva trionfalmente varcato di nuovo la soglia dell’officina con il sole negli occhi e con la musica nel cuore.

Una volta cresciuto, l’orso Giuseppe aveva dimenticato il terrore di quei giorni, aveva come nascosto in un pozzo profondo le sofferenze di quel tempo.

Ma ogni tanto il pozzo ribolliva, qualcosa affiorava, come un velo di nebbia all’orizzonte di una giornata afosa, come un frinire di cicale nel silenzio tombale della calura estiva, come una diafana medusa che spezza la coltre azzurra di un mare tropicale.

Come un mal di testa, come un insetto noioso, come uno sporadico pensiero che ti costringe a rivedere il tuo sorriso stampato.

Come quando tutto ti sorride ma hai paura che finisca.

Come l’imperfezione della bugia.

Come la vita.

Ma Giuseppe, l’orso Giuseppe, era forte come il legno e fiero come una trave e la paura avrebbe dovuto fare i conti con lui!

Venne scoperta una vena di ferro.

Vennero trovate tante vene di ferro.

Vennero aperte miniere su miniere.

Il ferro soppiantò il legno.

Nelle richieste delle fabbriche, nel gusto delle gente, nella testa di tutti.

Ciò che prima veniva magistralmente scolpito in legno ora veniva brutalmente forgiato di ferro.

Querciopoli divenne Sideropoli.

L’orso Giuseppe, il falegname, perse il lavoro.

Il peggiore dei fantasmi si era reificato, l’incubo degli incubi era divenuto realtà.

E il pozzo debordò.

Il contenuto del pozzo debordò.

Tra l’altro, suo padre, l’orso Cedrone, aveva patito di assenza di lavoro temporanea: mancava il legno, ma tutti volevano il legno.

Adesso tutti volevano il ferro, lui, il falegname, era un inutile fardello da accantonare come un cimelio, da rimuovere come un fastidioso orpello di un passato meno lucido.

Il ferro è lucido, il ferro è più forte del legno e Giuseppe era legato al legno, non era più né  forte né lucido.

 La storia si ripete e Giuseppe ripercorse le tappe del padre.

Molto peggio.

Senza speranza.

La paura più folle si impadronì di lui, non era più né padre né marito, non essendo più un lavoratore in grado di sostenere di certezze la propria famiglia.

E si lasciò andare, nell’inedia, nel vino.

Per fortuna però il vino concilia il sonno e nel sonno si sogna.

E la salvezza venne dal sogno.

Una notte di disperazione e di stridore di denti, Giuseppe era l’unico della sua famiglia a dormire.

Ebbro di vino, barcollante e reso zotico, Giuseppe si allontanò dai suoi che non potevano prendere sonno, ormai, non potevano assopirsi da tempo, né la moglie orsa Giulia disperata e impotente, né gli orsetti Birimbo e Birilla affamati, prostrati e inebetiti.

Si allontanò e crollò nel suo giaciglio.

E cominciò a sognare.

Dapprima immagini confuse, sporadiche illusioni di realtà tra fumosi sprazzi di delirio.

E poi suo padre, l’orso Cedrone.

“Caro il mio Giuseppe” disse Cedrone “tu stai soffrendo come io soffrii perché hai paura che la tua famiglia non si risollevi più dal baratro in cui è piombata”. 

“Ma c’è sempre una speranza, c’è sempre una soluzione, non disperare”.

“E poi ricorda che per i tuoi cari sei sempre il perno della loro esistenza, non puoi e non devi lasciarti andare nel vino e nella disperazione”.

“Loro contano su di te, ora più che mai”.

Giuseppe aprì un attimo gli occhi.

“Che diceva suo padre, come poteva esserci una soluzione?”

Ma si assopì di nuovo, vinto dal vino.

E riapparve suo padre.

“Devi partire da solo per un lungo viaggio e trovare la grotta azzurra; essa sarà la soluzione a ogni tuo problema”.

L’orso Giuseppe si svegliò di colpo.

Ricordava nitidamente ogni immagine, ogni parola, ogni sfumatura del sogno.

Suo padre gli aveva detto di partire per cercare la grotta azzurra.

Ma dove? In quale direzione?  A chi chiedere?

Ma suo padre, l’orso Cedrone, non gli aveva mai mentito: questa era la soluzione!

Giuseppe non perse tempo.

Riempita una borraccia e stivata una bisaccia, salutò con affetto i suoi, in lacrime, ma fiduciosi che la decisione del capofamiglia li avrebbe tolti dai guai e avrebbe ridonato  loro certezze.

Per istinto, l’orso Giuseppe si diresse a nord, verso le terre dei suoi avi.

E cammina, cammina, cammina tra lande assolate e tempeste furiose, tra notti senza stelle e ventose giornate, con l’ululato dei lupi nelle orecchie e il gracchiare incessante delle cornacchie, camminò per venti lunghi giorni senza sosta e senza meta.

Alla fine del ventesimo giorno, giunse sulle rive di un fiume di latte.

Proprio di latte, fresco, candido e spumeggiante latte bovino!

Giuseppe non credeva ai suoi occhi. Neppure nel più roseo dei sogni aveva mai immaginato un fiume così! Ecco la soluzione ai suoi guai!

Poteva diventare un commerciante di latte, poteva vendere il latte, ne aveva quanto ne voleva, gratis, a portata di orcio.

Si sarebbe arricchito e la sua famiglia sarebbe tornata a prosperare.

Ma l’euforia di Giuseppe durò molto poco.

Suo padre, l’orso Cedrone, in sogno, gli aveva parlato della grotta azzurra, non del fiume di latte. E lui si sentiva di obbedire.

E riprese il cammino, per altri interminabili giorni, sempre a nord, tra fulmini e saette, tra grandine e tempesta, tra vento e solitudine.

Allo scadere del ventesimo giorno, giunse in una radura assolata dove pasceva tranquillo un asino.

Ma non era un asino normale. Era d’oro, era un asino d’oro!

“Ecco la soluzione ai miei problemi”, pensò Giuseppe, “catturerò l’asino d’oro, lo venderò a peso d’oro e ricaverò tutti i soldi necessari al futuro dei miei orsetti”.

E si accinse alla cattura.

Aveva già preparato la corda per condurre via l’asino, quando si ricordò del sogno.  “La grotta azzurra, devo cercare la grotta azzurra”,  disse tra sé e sé Giuseppe, “questo mi ha chiesto mio padre”.

E, un po’ a malincuore, abbandonò l’asino d’oro e si mise in marcia.

Camminò, quasi si trascinò stanco e affamato, per deserte contrade e sassosi sentieri.

Allo scadere del ventesimo giorno, come per magia, il deserto finì.

Iniziò un verdeggiante declivio culminante in uno sgargiante prato fiorito.

“Mi riposerò tra i fiori”,  pensò Giuseppe.

Stava per sdraiarsi sul prato quando sentì una vocina.

“Giuseppe, orso Giuseppe, non ci calpestare col tuo peso, se ti sdrai sul prato ci farai morire!”

L’orso Giuseppe si girò e rigirò. Intorno non c’era nessuno, chi mai poteva essere a parlare così dolcemente?

Erano i fiori. Ogni fiore di quello splendido prato poteva parlare, ciascuno con una nota diversa, ognuno con la gioia di esprimersi.

Giuseppe credeva di essere ripiombato nel sogno, ma, ben presto, capì di essere ben desto.

“Ecco la svolta, ecco la soluzione dei miei guai”,  pensò l’orso,  “reciderò tutti questi fiori parlanti che mi verranno pagati a peso d’oro e sarò veramente ricco”.

E si chinò velocemente per iniziare la nefanda raccolta.

Ma si fermò, con l’immagine del padre che gli martellava le tempie.

“Questa non è la grotta azzurra!”,  gli urlava Cedrone nella testa.

E a malincuore riprese il cammino.

“Tra venti giorni troverò la grotta azzurra”,  si rincuorò Giuseppe,  “e i miei problemi saranno finiti”.

E camminò sotto il sole più cocente e sotto il diluvio più violento, di nuovo per venti giorni.

Allo scadere del ventesimo giorno, Giuseppe era agitato, insonne ma teso, con lo sguardo proteso.

Era certo, la sorpresa felice era dietro la prossima curva.

E invece nulla. Nulla di nulla. Solo sassi e arbusti, rovi appuntiti e aguzze pietraie.

Lo scoramento dell’orso era immane.

Non era possibile che suo padre, Cedrone, gli avesse mentito, se così fosse stato, il disastro era alle porte, ma non poteva essere, suo padre lo aveva incitato a partire e a trovare la grotta.

Giuseppe era sfinito: le intemperie lo avevano prostrato, il cammino lo aveva piagato, la solitudine lo aveva fiaccato.

Pensò così di riposarsi su un masso. E si sedette, con la sua mole,  con il suo peso.

E il masso cominciò a muoversi, lentamente, ma inesorabilmente, mettendo alla luce l’imboccatura di un antro pervaso da una luce cerulea.

“La grotta azzurra!”,  urlò Giuseppe pazzo di gioia. “L’ho trovata finalmente!”

E senza indugio si infilò nel pertugio. Ma ebbe un dubbio.

“Che farsene di una grotta, anche se azzurra e risplendente di zaffiro?”

Stava quasi per disperare, quando dal fondo della grotta un canto corale lo raggiunse.

Erano voci maschili che, all’unisono, intonavano un ritornello:

siamo nani,

siamo otto,

con il legno un bel salotto,

una sedia e il tavolino

son già pronti dal mattino.

E alla sera con il legno,

lavoriamo con impegno,

passa il tempo senza fretta,

lavoriamo di pialletta,

con la sega e il martello

ogni mobile è più bello.

Lo stupore e la gioia avvolsero Giuseppe insieme al ritrovato profumo del legno.

Era giunto alla meta, ecco la soluzione dei suoi problemi, la grotta azzurra!

Non fece in tempo a riprendersi dallo stupore, che una vocina lo apostrofò: “Caro Giuseppe, falegname antico e amico, ti aspettavamo. Io sono Gioppolo, l’ottavo nano, e con i miei fratelli lavoriamo il legno come te. Ma abbiamo talmente tanto lavoro che gran parte di esso vogliamo cederlo a te. Ogni settimana manderemo alla tua officina i nostri cavalli alati a ritirare i prodotti da te eseguiti e tu non avrai più né problemi, né pensieri per il futuro della tua famiglia”.

L’orso Giuseppe pianse, pianse di gioia, abbracciò Gioppolo, l’ottavo nano, e con lui iniziò a danzare ringraziandolo, ringraziando Cedrone, suo padre e pregustando da subito la gioia che avrebbe procurato ai suoi cari al suo ritorno.