Attualità - 30 maggio 2021, 14:00

La Fiaba della Domenica: "L’ospedale dei ranocchi"

Per paradosso, tutta la cortesia, l’accoglienza, la serenità, l’amore presenti nell’ospedale degli adulti mancavano in Rospetteria, diretta dal professor Rospoimbronciato

Nella palude di Ranopoli vi erano due strutture che funzionavano davvero: la prigione dei rospacci e l’ospedale dei ranocchi.

La prigione era gestita con estremo rigore e con puntuale rispetto della giustizia dallo sceriffo Rospogiusto e l’ospedale con efficienza, pulizia, professionalità e amore dal professor Rosposano. Ma l’ospedale non era tutto così ben funzionante, o meglio tutto… meno il reparto di Rospetteria che, ovviamente, equivale alla nostra Pediatria. Per paradosso, tutta la cortesia, l’accoglienza, la serenità, l’amore presenti nell’ospedale degli adulti mancavano in Rospetteria, diretta dal professor Rospoimbronciato.

Va subito detto che le cure, quelle sì, erano eccezionali. Diagnosi, prognosi, terapia erano ineccepibili e ai rospetti e ai ranocchi venivano prestate le cure più moderne, con le apparecchiature più avanzate, con i medici più qualificati, ma il rapporto con il ranocchio e con i suoi genitori era una vera tragedia.

Il professor Rospoimbronciato aveva una sua filosofia di vita che, purtroppo, trasportava anche nella sua professione: se ti doni agli altri, gli altri se ne approfittano, se sorridi agli altri, essi penseranno che sei un debole, una femminuccia, se non “freghi” gli altri, loro “fregheranno” te.

Guai se uno dei suoi sottoposti si permetteva di rispondere con cortesia a un genitore di un ranocchio ricoverato, guai se un’infermiera osava sorridere ad un rospetto, guai se un medico osava parlare fuori orario ai genitori.

Tutti erano terrorizzati da Rospoimbronciato: i ranocchi, i genitori, il personale tutto. Soprattutto le infermiere, poverine, dovevano soffocare il loro naturale senso di accoglienza e d’amore, lo spirito materno, la voglia di andare incontro e rimanere dure, impassibili con il cuore gonfio di dolore nel curare i rospetti sofferenti.

In particolare un’infermiera, Genzianella, naturalmente portata al sorriso e al ristoro delle altrui sofferenze, pativa terribilmente di questa situazione e si trascinava in un lavoro di routine che non la soddisfaceva e che andava contro il suo più profondo modo di essere e di sentire.

Non poteva sorridere, né parlare, né accarezzare i ranocchietti, neppure rispondere alle loro insistenti domande.

Genzianella meditava da tempo di andarsene dal reparto, nonostante il suo grande amore per i piccoli.

Nessuno era felice, nessuno era cordiale, l’obbligo era di essere come il professor Rospoimbronciato: cupo, solitario, taciturno e distaccato, soprattutto distaccato con i piccoli malati.

L’ordine era, per tutto il personale, di trattare malati e parenti con sufficienza, superiorità e distacco: questa era per il primario la professionalità, la tutela per l’apparato ospedaliero contro le “invasioni” dall’esterno.

Di scuola in ospedale e di clownterapia neppure a parlarne. Neppure le mamme erano ammesse al capezzale dei rospetti e dovevano, la sera, andarsene piangenti nel guardare i propri piccoli imploranti.

Ma un giorno cominciò il miracolo.

Tutto cominciò con la moglie del professore che, da tempo, era molto  preoccupata per la salute del loro piccolo ranocchio di nome Broncino. Questi non mangiava  praticamente più, era sempre triste, facile al pianto, isolato dai compagni e deperiva, deperiva, quasi a ridursi uno scheletro. Addirittura non parlava quasi più e passava il tempo a letto, chiuso nella sua camera con le cuffie in testa.

Il professor Rospoimbronciato e la moglie le avevano provate tutte: i doni, i viaggi, i manicaretti, le minacce, i ricatti, ma nulla, Broncino stava sempre peggio.

La signora “cieca” e fiduciosa come tutte le persone che amano, non trovò nulla di meglio che proporre al marito di ricoverare Broncino nel suo reparto. Questo fatto poteva essere addirittura letale per il piccolo se non fosse intervenuto il miracolo!

Il professore, per prima cosa, ordinò a tutti i suoi sottoposti di trattare il proprio figlio né più né meno degli altri piccoli malati: cure mediche, farmaci, raggi ecc. ecc., ma niente smancerie!

Che non si dicesse che lui, tutto d’un pezzo, facesse favoritismi! Che non si dicesse che suo figlio Broncino fosse una femminuccia!

Il piccolo Broncino stava sempre peggio: ormai viveva attaccato ad una flebo senza più interessi, gli occhi spenti nel vuoto.

Genzianella, che soffriva per tutti i piccoli ricoverati, per Broncino soffriva ancora di più.

In lui vedeva tutta l’impotenza del padre, con la sua scienza e la sua tracotanza, vedeva il tormento di un piccolo incompreso, obbligato a essere come il padre voleva e come la madre, supinamente accettante, educava. Ma vedeva anche il fallimento di se stessa, obbligata a reprimere ogni bel sentimento, impedita nelle più spontanee manifestazioni di se stessa.

E decise di trasgredire! Per il bene di Broncino, ma anche per il suo!

E fece ciò che le veniva meglio: sorrise!  Sfoderò il suo più naturale e smagliante sorriso che scaldò subito il cuore di Broncino.

E tutti i giorni, più volte nel giorno, Genzianella, con la scusa delle “cure”, si infilava nella camera di Broncino, chiudeva la porta e sorrideva, leggeva delle fiabe, parlava di sé e di lui, delle loro passioni che “stranamente” coincidevano, dell’amicizia, dei genitori, delle paure, della vita.

E Broncino migliorava a vista d’occhio: si alzò, andò sul terrazzo, riprese a mangiare, a correre, a giocare; chiese dei suoi compagni di scuola, li volle vedere, volle i compiti da svolgere.

Il professor Rospoinmbronciato, tracotante e borioso del successo, incassò dalla moglie e da tutto l’ospedale il grande trionfo!

Si convinse sempre più che i suoi metodi e la sua filosofia di vita fossero i migliori, come aveva sempre pensato.

Genzianella, felice della trasformazione di Broncino, se ne stava in un angolo lacerata da un dubbio: era meglio urlare in faccia al primario i veri motivi della “guarigione” di Broncino e sfidare l’ira del professore o continuare a trasgredire in segreto, dando amore agli altri piccoli malati all’insaputa del primario?

Broncino, quasi le leggesse nel pensiero, (ma in fondo era proprio così!) salì su un tavolo con grande agilità e, a gran voce chiamò tutti i presenti, per primi i suoi genitori.

E disse: “Non sono state le medicine a guarirmi; esse, pure molto utili, non servivano nel mio caso. E’ stato l’amore trasmessomi con il sorriso di Genzianella, il suo starmi vicino con il cuore e con il calore umano”.  “Voglio che questo avvenga per tutti i ranocchi e i rospetti malati”.

“Voglio inoltre che papà istituisca nell’ospedale la scuola che tanto può fare per i piccoli malati per farli sentire vicini agli altri”.

Come folgorato, per la prima volta nella sua vita, il professor Rospoimbronciato sorrise e poi pianse, di un pianto liberatorio e, abbracciando Broncino e la moglie, dichiarò la sua volontà di cambiare: da quel giorno le mamme dormirono con i rospetti ricoverati, i clown furono di casa, la scuola divenne parte dell’ospedale stesso che venne così chiamato Happysmile per la felicità e i sorrisi di tutti coloro che lo abitavano.