Re Orso imperava.
Re Orso regnava su Orsopoli con pugno di ferro.
Era una roccia, era un uragano, aveva la forza di un aeroplano.
Non vi era spazio per dubbi, incertezze o defaillances nel suo pensare e, men che meno, nel suo agire.
Il regno come la famiglia, nel regno come in famiglia, sempre al centro, nel centro, facendo centro.
Era un uomo del fare, Re Orso, pragmatico, concreto, senza fronzoli, arrivava subito al sodo.
Ogni orso, ogni orsa, ogni orsetto contavano su di lui per vedere sanati i torti, rispettati i patti, assicurato il diritto alla sicurezza, riconosciuti i valori, garantita la pace.
In un siffatto regno si viveva proprio bene, tranquilli, agiati, si potevano passare le ore a lustrarsi il pelo, a pescare nel fiume, a ingozzarsi di miele, con la certezza che nessuna esterna tracotanza o nessuna interna rivalità potesse incrinare la serenità dei quotidiani momenti.
Bastava l’immagine mentale di Re Orso per far nascere distesi sorrisi nei sudditi e paciose zampate tra i familiari: lui c’era, era la forza fatta orso, la potenza vivente, tra un coro di applausi costanti e di ammirazione adulante.
Un suo gesto, una sua parola, un suo sguardo bastavano e avanzavano ad amici e nemici per riprendere vigore o per spegnare velleità, per spronare al domani o per accettare l’oggi.
Ma anche la roccia può sgretolarsi, anche l’uragano può smettere di tuonare, anche la forza di un aeroplano può subire un fallo per un’avaria.
E Re Orso, di colpo, morì.
Nel pieno della vigoria, nel fulgore della bellezza, all’acme della realizzazione: mentre guidava la scalata delle sue armate speciali al Monte Tenebroso, per primo, in testa al plotone, con l’ampio torace sferzato dal vento, con la possente schiena madida di pioggia, con gli unghioni sfoderati e la voce potente a incitare gli scalatori.
Si afflosciò sul terreno, si abbatté al suolo come una quercia vinta dal tornado, con il peso dei suoi duecento chilogrammi a far rimbombare la terra e a far gioire la terra per poter accogliere un simile duce.
Come dall’arco una freccia scocca, così la notizia vola di bocca in bocca: e fu così che, in un battito d’ali, un intero regno passò dalla baldanza allo sgomento, dalle certezze all’insicurezza, dal piglio vincente al ricurvo delle spalle, dal radioso futuro all’oscuro domani.
Un intero regno si trovò, all’istante, privo di guida.
I ministri, abituati a eseguire, non sapevano che amministrare, i generali, edotti a imporre la volontà del re, si scoprirono senza volontà, i consiglieri, avvezzi a consigliare al re i consigli del re, non trovavano né un buono né un cattivo consiglio, i diplomatici, sempre forti dell’immagine del re che forniva loro il rispetto degli altri, non riuscivano a farsi rispettare.
Che fare? Come andare avanti?
Come riprendere il cammino senza la Guida, il Maestro, il Duce, l’Alfa e l’Omega?
Tutti erano affranti, appannati, offuscati, tremebondi.
I nemici si ammassavano ai confini e le diatribe sconquassavano l’interno.
Neppure i tribunali, abituati ad applicare la legge del Re, riuscivano più a mantenere un minimo d’ordine, non conoscendo la legge e non avendo l’autorità e l’autorevolezza per imporre alcunché a chicchessia.
L’esercito era allo sbando, l’economia era a terra, l’inflazione alle stelle, la delinquenza prosperava e l’insicurezza dilagava.
Ma voi direte: “Come è possibile tutto ciò, non aveva forse Re Orso un erede al trono? Un figlio legittimo, sangue del suo sangue, che potesse incarnare la forza e la volontà del padre? Un nuovo regnante, giovane e forte che, con gli insegnamenti paterni nella mente e la sua figura nel cuore, potesse stabilire continuità nell’ordine e nella sicurezza?”
In effetti un erede c’era.
Era Albino, giovane figlio di Re Orso, così chiamato in virtù del suo pelo bianchissimo.
Ora, dovete sapere che Re Orso era il più scuro degli orsi dal pelo bruno fulvo, il suo pelo era non solo il più scuro, ma il più lucido, il più folto, il più resistente, il più ispido, il più lungo di tutto il regno.
Era uno dei suoi vanti, il suo pelo, motivo di adorazione di tutte le orse e di invidia celata da deferente paura da parte di tutti gli orsi.
E quell’unico figlio dal pelo bianchissimo… non fu mai accettato da Re Orso.
Ebbe un bel da fare Orsa Madre a spiegare e rispiegare che nella sua famiglia, ogni due generazioni, nasceva un orsetto dal pelo chiaro! E che, nel giro dei geni, toccava proprio a lei! E che anzi, molti orsi bianchi, suoi avi, si erano distinti per sapienza, per forza, per scienza, per lungimiranza!
Ma non vi fu nulla da fare.
Re Orso non ritenne mai Albino un vero suo figlio, pur non spiegandosi mai razionalmente i motivi, pur volendo bene al figlio, pur crescendolo a corte con tutti i privilegi, ma con un pizzico di vergogna, con una punta di ritrosia, con il dubbio che lo rodeva di tanto in tanto.
Orsa Madre si ritirò in se stessa, sfiduciata, rendendosi conto che, a prescindere, il Re avrebbe voluto un figlio diverso, deciso, mentre Albino era titubante, terribilmente forte, mentre Albino era normalmente forte, privo di paura, mentre Albino possedeva le giuste paure, implacabile, mentre Albino sapeva placare le sue ire, pragmatico, mentre Albino tendeva al pensiero, ma soprattutto il Re voleva un figlio bruno come lui, altro che bianco come una femminuccia!
E, con la previsione che si auto avvera, essendo Albino cresciuto all’ombra del padre e stretto alle sottane della madre, essendo Albino l’esatto opposto del padre, era totalmente incapace a regnare.
Attenzione, non perché fosse un inetto, non perché non sapesse regnare.
Ma perché quel regno poteva solo essere gestito e comandato da Re Orso, era a sua immagine e somiglianza, totalmente dipendente da lui.
Solo un suo clone avrebbe potuto succedergli!
E Albino, lungi dall’essere il clone del padre, manifestava la propria diversità già a guardarlo.
Chi poteva prendere ordini da un orso bianco quando Re Orso, il più bruno di tutti, egli stesso metteva in dubbio la legittimità di quel figlio? Chi poteva accettarne la legittima successione? Chi poteva non cadere alla tentazione della sfida a quel figlio di quel re che non poteva essere sfidato da nessuno che volesse continuare a vivere?
E si arrivò così allo sfacelo del regno, all’anarchia, al tutti contro tutti, ai nemici di casa e ai nemici in casa, al caos del quotidiano, alla paura nel quotidiano.
Orsa Madre era sempre più chiusa e ritirata, protetta da uno sparuto manipolo di fedelissimi e Albino era sempre più preda dello scoramento, della disperazione.
Ma, ve lo immaginata un re non riconosciuto da nessuno, non legittimato né dai sudditi né dai nemici, non ascoltato dai suoi ministri e dai suoi soldati, non amato, non voluto, visto solo come l’esatto contrario del padre, egli la forza, la potenza, la giustizia, il pelo scuro e vincente, lui l’inettitudine, l’indecisione, la mestizia, il pelo chiaro, imbelle e insulso?
Egli dio in terra, lui figlio di un dio minore.
Era la rovina!
Orsopoli stava precipitando nel più terribile degli inferni, senza possibilità di ritorno, di risalita, senza luce in fondo al tunnel!
E lui, Albino, sentiva il peso di tutto ciò, si sentiva la causa di tutto ciò!
Nessuno pensava che Re Orso fosse mortale, ma era morto!
Nessuno pensava che Albino fosse re, ma era re!
Per fortuna cominciò a sognare.
Dapprima sogni confusi, senza senso, senza traccia, caos nel caos, senza un filo d’Arianna a fornire un cammino, senza un nesso a fornire significato, ma poi, via via, sogni più chiari; uno in particolare: c’era un enorme orso bruno in catene e la cosa strana era che l’orso, di forza, spezzava le catene, con rabbia, ma poi, subito dopo, egli stesso rimetteva i chiavistelli alle proprie catene, incatenandosi nuovamente, per poi spezzarle e incatenarsi di nuovo.
Ma una notte, il nero orso, spezzate le catene, non se le rimise e parlò: “Albino, sono il Re tuo padre, dalla prossima notte ti darò una parola, una per notte, per cinque notti, e se tu saprai comprendere nel profondo il significato di queste mie cinque parole, tu sarai un vero re e il tuo regno tornerà a splendere”.
Nel mattino piovoso che seguì a quel sogno, Albino riuscì a non disperarsi per la situazione del regno: era come distante, preso da un pensiero costante, assorto, ma stranamente rilassato, non più cupo, non contrito, come quando, da piccolo, aspettava il rientro del padre dall’ultima vittoriosa battaglia o dall’ultima straordinaria impresa con l’attesa del dono costituito dal racconto del padre.
E venne la notte.
Puntuale, l’enorme orso bruno spezzò le catene e disse ad Albino: “La brocca, figlio mio, la brocca”.
Il re bianco si svegliò di soprassalto.
“Che voleva dire suo padre, l’orso bruno, con la brocca? Che senso aveva questa parola?”
Che diamine, lui si aspettava consigli, indicazioni, pratici segnali e concreti messaggi!
E venne la notte.
Ed ecco, ancora in catene, il possente orso scuro rivolgersi in sogno ad Albino urlando : “Lo scettro, figlio mio, lo scettro!”
“Lo scettro?!” esclamò Albino al risveglio.
“Che diamine! Mi delude proprio mio padre, lo scettro! Che me ne faccio, io lo scettro lo impugno ogni giorno, ma nessuno mi ascolta, nessuno ha paura di essere colpito dal mio scettro! Che diamine, padre, che consigli mi dai?”
E venne la notte.
Col peso della delusione e con l’attesa di una sconfitta annunciata, Albino, stremato, si addormentò di colpo.
Ed ecco, inesorabile, questa volta con le catene spezzate, Re Orso, perché di lui si trattava, apparve enorme in sogno ad Albino dicendogli, con una certa dolcezza: “Il sale, Albino, il sale!”
Come sempre, turbato dal sogno e preda di ansia e inquietudine, il re chiaro si svegliò di soprassalto.
“Il sale? Che vorrà comunicarmi mio padre con il sale? Secondo me è impazzito, nel regno dei morti è divenuto il re dei pazzi e dei deliranti!”
Ormai il giorno era solo l’attesa della notte.
Riflettendo, verso sera, Albino cominciò a trovare una luce, fioca, tremula, ma distinta, in ciò che il re, suo padre, aveva a lui comunicato.
La brocca, lo scettro, il sale…non riusciva a prendere sonno, la quarta notte.
Le prime tre notti si era addormentato di sasso, ma ora l’insonnia lo tormentava.
E infine dormì.
E venne uno strano Re Orso, senza catene, tranquillo, pacato, regale.
“La mappa, Albino, la mappa”, disse il re bruno al bianco figlio; ma lo disse con tenerezza, con un sorriso dolce e ristoratore.
Albino, quella notte, non si svegliò di soprassalto.
Dormì bene e, di buon ora, si svegliò stranamente sereno.
Il puzzle cominciava a definirsi.
“La brocca, lo scettro, il sale, la mappa… manca una parola”, commentò tra sé e sé.
Tutto il giorno, minuto dopo minuto, il re bianco lo passò chiuso nella sua stanza privata, facendo mille congetture, con una nuova e inusitata consapevolezza.
Certo, anche tra mille dubbi, ma una luce, ormai nitida era là in fondo al tunnel.
L’interminabile giorno volse alla fine.
E nell’ora “che volge al desio”, Albino era l’immagine dell’attesa: un’attesa catartica, quasi messianica, con ogni senso e ogni muscolo teso al futuro.
Come dormire in questo stato? Come riuscire a sognare per ricevere l’ultimo dono?
La madre, ormai da molti anni, per potere addormentarsi, la sera beveva un intruglio di rare erbe preparato dal medico di corte.
Albino corse dalla madre: non c’era , era in cappella a pregare.
“Meglio così”, pensò Albino, “non devo dare spiegazioni!”
Bevve avidamente anche lui l’intruglio di erbe e corse a stendersi sul suo letto regale.
E venne il quinto sogno.
Un Re Orso dolce e sereno, amorevole e accogliente, tenero e affettuoso come mai in vita era stato, rivolse al figlio la voce e le zampe per cingerlo in un abbraccio.
“Lo specchio, Albino, lo specchio! Figlio mio, rimirati allo specchio!”
E sparì e con lui il sogno svanì.
Quella notte, sicuramente in virtù dell’intruglio, Albino dormì profondamente sino a tarda mattina.
Al risveglio, un po’ intorpidito, ma deciso, corse subito al suo tavolo.
Gli era improvvisamente tutto chiaro!
Avrebbe salvato il suo regno, avrebbe ridonato felicità e sicurezza al suo popolo, avrebbe regnato da vero re, ascoltato ed amato.
Avrebbe dovuto usare la brocca per lavarsi dai pregiudizi radicati in lui su se stesso, prima di tutto di essere un figlio illegittimo e poi di essere un inetto, avrebbe impugnato lo scettro con questa nuova consapevolezza foriera di un nuovo vigore, avrebbe usato il sale della sapienza per discernere gli orsi buoni da quelli cattivi, circondandosi dei primi e allontanando i secondi, avrebbe contemplato la sua mappa genetica, riconoscendola e riconoscendosi per poi rimirarsi nello specchio con la sua unicità e la sua identità, ma carico delle doti derivanti dai suoi predecessori.
Così fece.
Un Albino nuovo quel giorno uscì dal palazzo reale.
Il suo bianco folgorava di splendore, la sua alta figura era eretta e con lo scettro impugnato incuteva timore ai disonesti e sicurezza ai probi.
Era lui, semplicemente lui, aveva solo compreso che doveva essere lui, non suo padre.
E in breve Orsopoli tornò all’antico splendore, anzi ad un nuovo splendore, perché il bianco può accogliere tutti i colori.
Tratto da: "Le fiabe per... sviluppare l'autostima (un aiuto per grandi e piccini", di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra, collana "Le Comete", Franco Angeli Editore. Con il patrocinio dell'Unicef.
GLI AUTORI:
Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.
Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.
Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.
Associazione Pietra Filosofale
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La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.
L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.
«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman
La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)
Pedagogia della fiaba
La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.
"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli).