C’era una volta un paese lontano, ma così lontano che era impossibile arrivarci.
Né col calesse, né in carrozza, né a dorso di mulo si poteva pensare di giungere là, in quel paese lontano.
E così, in quel paese, non arrivava mai nessuno.
E poi, che cosa si sarebbe dovuto andare a fare in quel paese lontano? Era brullo, grigio, triste e molto noioso, perennemente avvolto da una fitta nebbia, ma così fitta che per camminare per strada bisognava chiamarsi l’un l’altro per non sbattersi contro.
E poi pioveva sempre.
Non forte, non in maniera scrosciante, ma piano, con gocce fitte e costanti, noiose e invadenti come il resto di quel posto.
E poi, perché arrivare in quel paese?
Era sulla cima di un monte, impervio e scosceso, con le rocce sopra le rocce e le case sopra le rocce.
Che senso aveva raggiungere il paese?
Noia e freddo, grigiore e nebbia, pioggia e vento facevano a gara per chi doveva essere re, in quel paese lontano.
E in quel posto, in quel villaggio, anche la gente era grigia e noiosa, triste e scostante, solitaria e mugugnona, sempre in attesa di un raggio di sole, che accadesse qualcosa, di uno squarcio di luce, di una scossa di vita, di un mondo migliore, del migliore dei mondi.
E poi, in quel lontano paese, vivevano degli strani abitanti, proprio degli insoliti personaggi, dei rustici villici con ben strane abitudini.
C’era Artemio il vinaio, più rosso lui del suo vino, sempre intento a biascicare tabacco.
E masticando il tabacco e parlando da solo, inevitabilmente frammenti di esso finivano nei bicchieri e nelle brocche degli ignari clienti che così bevevano il vino aromatizzato al tabacco già masticato.
C’era Aroldo il calzolaio, sempre chino sulla forma da scarpe, sempre spento come la luce della sua magra bottega, con gli occhiali sul naso e le stanghette di essi sempre tenute da un elastico giallo,sempre a ripetere tra sé e sé:”Se potessi…se potessi…”
C’era Aristide il carrettiere, grigio come il suo mulo e meno grigio del suo carretto sgangherato, sempre a braccia conserte a guardare la ruota che, per l’ennesima volta, era uscita dall’asse.
C’era Antigone il lattaio, lamentoso e perennemente raffreddato, i cui famosi starnuti irroravano gli orci di latte dai quali, con piccoli mestoli di rame, riempiva le pentole di stagno delle donne avvolte nei grigi e neri scialli di lana.
C’era Alceo, lugubre e losco personaggio, spesso assente dal villaggio, per affari, diceva lui, sempre intriso di odori più strani, dal burro rancido allo zolfo di miniera, a zonzo per le piccole strade in salita a guardare gli altri torvamente e biecamente a biasimarli per le schiene ricurve.
C’era Anselmo il becchino, il cui naso aquilino lo faceva sembrare un avvoltoio: ma non era solo il naso: anche le spalle puntute e ricurve, la magrezza inusuale, il lungo collo bitorzoluto, tutto in lui lo faceva sembrare un uccello del malaugurio.
E su ciò lui campava.
C’era Antonio il tabaccaio, sempre intento o a vendere tabacco da denti al vinaio Artemio o a digrignare i suoi denti in un ghigno beffardo.
E la pioggia incessante e la nebbia perenne, a volte la neve, che cercava di rallegrare di bianco il grigiore stentoreo che copriva come un tabarro abbottonato ogni cosa e ogni luogo.
E Benito, e Bastiano, e Battista, e Curcuruto, Calliscio, Colgrunco, tutte figure sfuggenti, a testa china e a bavero alzato, radendo i muri ed evitandosi l’un l’altro in un trascinare la vita, trascinando se stessi nel rovello di ciò che poteva essere e non è stato.
Ognuno crucciato, ricurvo, ferito, devastato dalla quotidiana assenza di speranza di rivedere risplendere il sole.
E poi c’era Santa Pazienza.
In realtà si chiamava Celina ed era proprio una fulgida stella.
Celina era nata in una poverissima famiglia di contadini, quinta di sette figli, con sul collo il fiato di freddo, fame e fatica, ma sempre con il sorriso sul volto rotondo.
Avvezza a sacrifici indicibili e a fatiche senza fine, soleva dire ad ogni colpo del fato “Santa Pazienza!”.
E sorrideva giuliva, riprendendo il cammino nel mondo.
Celina sorrideva anche quando d’inverno, nelle traversate montane di notte, sola, per le mortali ghiacciaie, carica come un mulo, la tormenta l’assaliva, la flagellava a sangue e la teneva immobile, rannicchiata sotto un antro di rupe, con la paura di soccombere al sonno traditore della montagna, il sonno gelido, invincibile avanguardia della morte.
Certo lei conosceva quei valichi, passo a passo, ne aveva contato tutte le rocce e aggirati tutti gli anfratti e misurata la bocca di tutti i crepacci e tastata tutta la crosta nevosa che li scavalcava: ma era una conoscenza pericolosa come quella del domatore con la propria tigre, perché come una fiera, la montagna ti azzanna quando la credi domata. E, a differenza dei suoi paesani, Celina amava quel sito, ne percepiva la rosea vita e l’azzurro respiro sotto le grigie sembianze.
Con le mucche al pascolo, lei soleva scambiarsi la vita con la natura montana.
Un giorno, era l’una pomeridiana, il sole batteva a perpendicolo e l’aria fumava e tremava. Il nevaio sudava e si squagliava in rigagnoli che, saltellando per le asperità del terreno o scorrendo lisci sulla neve, rendevano musiche allegre, suoni metallici, mormorii sommessi di innamorati, brontolii corrucciati come di ape rinchiusa, gorgogliavano con accenti di rabbia imponente nelle strette rocciose e poi si combinavano come lieti di ritrovarsi dopo lunga prigionia, per poi accelerare la corsa fino a precipitare in spruzzi argentini per qualche dirupo scosceso.
Qua e là, dove il sole era meno prepotente, un filo d’acqua tardivo e stantio gocciolava miseramente con intermittente singhiozzo e, parlando con la prima timida nuvola, stagnava ad un tratto, per poi, tornato il sole, lamentarsi come un bimbo capriccioso.
Ebbene quel giorno, dopo un lungo colloquio con la natura d’intorno, Celina si era assopita, col formaggio tra le dita ed i raggi sul volto, stanca e beata del suo fondersi col monte. Ed ecco dal rigagnolo fermo, un po’ putrido di neve fangosa, emergere un volto piccino, come di bimbo invecchiato, con un berrettino sul capo a proteggere una cute macera d’acqua di neve. E dopo il volto, ecco un esile corpicino coperto di foglie, con una cintura di edera che lo avvolgeva tutto in un abbraccio sgocciolante.
“Celina, Celina”, disse l’esserino con voce ferma e suadente, “non dormire, anche se so che hai molto sonno, devi ascoltare ciò che Madre Terra mi ha incaricato di dirti!”.
Celina ascoltava, ma non si svegliava, pensava di sognare, era in quello stato in cui anche venisse un gigante che con violenza ci strappasse dal suolo, non ci si sveglierebbe per non turbare l’armonia di chi è in pace nel dormire ascoltando la veglia.
“Celina, Celina non stai sognando” riprese il piccolino, “sono io che ti parlo, Zaccaria lo gnomo della neve che va via!”.
“Devi cercare Olinda la fata che ti darà il sangue del drago che rende tutti felici!”.
“Santa Pazienza!” esclamò allora Celina nel sonno, “mi sa che devo svegliarmi, questo sogno mi pare ben strano!”.
“Sì, proprio Santa Pazienza, sei tu questa Santa Pazienza che potrà togliere il grigio torpore e la torva tristezza degli abitanti del regno, così vuole Madre Terra, accogliendo il tuo profondo sentire!”.
E sì, perché dovete sapere che Celina non si crucciava della sua vita dura e insonne, di fame e di freddo, del suo lavorare soltanto e della sua perenne solitudine, no, lei soffriva per la tristezza dei suoi paesani, per il loro astio reciproco, per il grigiore perenne che copriva i volti e gli spiriti di tutta la gente.
Diffidenza, malcontento, odio, invidia, accidia serpeggiavano tra la gente e nessuno, ai colpi della vita, rispondeva con “Santa Pazienza!”.
No, la gente dava la colpa al vicino, al parente, al compare, al destino, al tempo, alla strega, alla moglie, coprendo di nero ogni specchio di casa.
E, svegliatasi, vide l’ometto di fronte a sé che si sbracciava dal rivolo d’acqua per compensare l’assenza di altezza e per essere ben certo di essere visto e ascoltato.
“E dove posso trovare la buona fata Olinda, mio caro gnometto?” disse allora Celina.
“Qui dove sono io”, rispose il piccino, “ma la notte, perché Olinda ama la notte, quando la quiete è assoluta e la neve raccoglie i bagliori delle stelle rimandandoli alla luna sorniona”.
“Se farai come ti dico, il sangue del drago cambierà la grigia vita dei valligiani colorandola di rosso e di oro!”.
“Santa Pazienza!” disse allora Celina, “io avrò freddo, pazienza, io avrò fame, pazienza, ma le mie mucche come faranno senza la biada e la stalla?”.
“Porterò io le vacche allo stazzo”, disse lo gnomo, “tu sarai quella che coglierà la coppa col sangue del drago!”.
“Santa Pazienza!” disse ancora Celina,, “son felice se posso aiutare i paesani, mi fido di te Zaccaria, non preoccuparti di avvisare nessuno se io non sono tornata, l’importante è che le mucche siano tutte a rimessa!”.
E così attese la sera.
Il soffio freddo del tramonto era imminente. Celina lo vide salire, correre per la vallata come un brivido febbrile. Gli alberi se lo comunicavano l’un l’altro. I rami verdi prendevano un fuggevole riflesso argentino che li lasciava più scuri e immobili, l’erba diveniva grigia un istante curvandosi e si risollevava orgogliosa, il soffio passava e saliva sempre di più.
Gli alberi più alti agitarono le punte come volessero ricusare la notte, i prati ondeggiarono di paura: Celina rabbrividì, la notte di svelatrice si stava avvicinando.
Tutti i suoni tacquero d’incanto: la grande sinfonia del giorno lasciava spazio alla tenue armonia della notte.
La crosta del nevaio, rassodandosi dal freddo, mandò mille scricchiolii di saluto al giorno morente, tutte le note allegre dell’acqua tacquero, tutti i rigagnoli stagnarono, la neve, non più umida di sole, divenne cristallina di stelle e l’aria diventò fredda, tagliente, acerba come un nemico.
Nuvole nere scavalcavano le vette da ogni lato ansiose di correre a nascondersi prima di perdersi nel buio della notte, strisciando lungo le rocce come serpenti disturbati da incauti passi, altre sbucavano dai tornanti con aria sospettosa, esitando come per scegliere una via di fuga dalla nera coltre della notte.
E Celina, fiduciosa e intorpidita, aspettava un segnale, una luce, una diafana presenza che confermasse le parole dello gnomo.
Ma niente.
Ma lo scoramento non era parte di lei.
“Santa Pazienza!” diceva tra sé e sé, tra il freddo che la schiacciava, la paura che la attanagliava e il sonno che la pervadeva, progredendo come una colonia batterica.
Ecco il sonno, gelido pretoriano della morte, stava quasi vincendo la Santa Pazienza di Celina, quando uno squarcio di colore e di luce baluginò nella notte ormai nera di pece.
Celina si scosse, in preda a panico e frenesia, a gioia e a timore, ad un algido intorpidimento che lasciava via via spazio al pervasivo calore del sangue che riprendeva a circolare con vitalità fino ad allora inespressa.
“Sono Olinda, la fata delle notte stellate, sono qui per te cara Celina, Santa Pazienza, per te e per portare finalmente la gioia ai tuoi paesani che vivono invano, dilaniati da rancore e sfiducia!”.
“Ecco la coppa d’oro con dentro il sangue di drago!”. “Tu dovrai portarla al paese e con essa toccare ogni casa, ogni luogo, per poi spargere il sangue nel grigio torrente che abbevera il villaggio!”.
E ciò detto la voce, che apparteneva a una bianca signora di una bellezza mai vista neppure nelle immagini della sua chiesa, si tacque, il bagliore si spense, lasciando ai piedi di Celina una preziosa coppa intarsiata che raccoglieva più luce dei cristalli di neve.
E con la coppa tra le mani corse a valle a perdifiato.
Il paese era immerso nella notte più grigia.
Dalle case trapelava ora un gemito di dolore ora un sommesso russare, il torrente scorreva placido e grigio, marcando il tempo del nulla.
Celina fece come Olinda le disse: toccò ogni casa,ogni uscio,ogni stalla, ogni bottega, ogni aia con la coppa dorata e infine ne sparse il sangue contenuto nel ruscello assonnato.
E mentre toccava, la grigia notte lasciava via via il posto a un sole dorato e più toccava e più luce vi era, i gemiti e il sonno lasciavano spazio a schiocchi di baci e a risa adamantine, la gente usciva di casa percependo il miracolo e si abbracciava, gli occhi velati di tutti si disvelavano alla gioia, le mani si stringevano, i cuori si scaldavano, il grigio lasciava spazio via via al rosso, al giallo, all’azzurro, al rosa e Celina, oltre a “Santa Pazienza!”,cominciò a dire “Santa Delizia!”, imitata ben presto da tutti i suoi paesani.
Tratto da: "Le fiabe per... affrontare la solitudine (un aiuto per grandi e piccini)", di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra, collana "Le Comete", Franco Angeli Editore.
GLI AUTORI:
Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.
Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.
Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.
Associazione Pietra Filosofale
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La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.
L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.
«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman
La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)
Pedagogia della fiaba
La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.
"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli).