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Attualità | 22 marzo 2020, 10:30

La fiaba della domenica: "L'Orco"

Il rapporto genitori/figli, gli equilibri familiari e persino le violenze domestiche e il femminicidio: questa fiaba raccoglie varie tematiche che risultano più che mai attuali in questo periodo storico

La fiaba della domenica: "L'Orco"

C'era una volta una tenera fanciulla di nome Biancastella che era bianca nell'animo e stella nel viso.

Biancastella racchiudeva in sé ogni muliebre virtù, bella da inorgoglire lo specchio, buona e generosa da riuscire a conquistare anche la diffidenza dei miopi, tenera e aggraziata come una miniatura rinascimentale, intelligente e perspicace come mai una giovane vi era stata, con una voce così dolce che ammaliava grandi e piccini.

Biancastella era orfana di madre dalla nascita: Armida, sua mamma, era morta felice nel darla alla luce, vedendola splendida e candida già dal suo apparire nel mondo.

La giovane aveva vissuto da allora con Artemisio, suo padre, maniscalco di corte e fabbro ferraio nelle fiere dei villaggi.

E Biancastella, sin dalla più tenera età, seguiva il suo babbo nelle itineranti e faticose trasferte di villaggio in villaggio, di borgo in borgo, tra l'olezzo di bestiame e le bestemmie dei villici, tra la sellatura di un cavallo e la ferratura di un mulo.

Quando la sera, stanco e abbrustolito dal fuoco, così come annerito dal carbone e annichilito dagli eventi, il suo babbo, curvo e pensieroso, si immergeva nel metilene del vino portatore di oblio, Biancastella intonava, con la sua melodiosa voce, un bel canto, un canto d'amore e di tenerezza; così, come per incanto, svanivano pene e fatica, inganni e brutture e il babbo si rasserenava e si trasformava nell'uomo dal presente radioso che Biancastella ricordava e rappresentava.

La voce della ragazza era così dolce che, oltre a suo padre, rimanevano incantati tutti coloro che passavano di là, i viandanti come gli uccelli nel cielo, i cavalli così come le massaie degli usci vicini.

E Biancastella cresceva, in bellezza e bontà, in generosità ed altruismo.

Alle fiere, siccome gli stallieri facevano la fila per far ferrare i cavalli a suo padre solo per poter godere dell'immagine della dolce fanciulla, ella si spostava spesso vicino agli altri maniscalchi, onde poter far guadagnare anche a loro qualche soldo.

Sempre alle fiere non si contavano le offerte di matrimonio che lei riceveva: alcune discrete, alcune sguaiate, qualcuna irriverente, qualcuna divertente, certune intriganti, certune disarmanti, altre improbabili e altre interessanti.

Ma lei, con un sorriso e un cenno del capo, metteva a freno a ogni aspirazione e a ogni ambizione: “Devo badare a papà, ringrazio, ma non posso allontanarmi da lui!”.

Era come se, nel momento in cui era venuta alla luce e si era spenta la luce per la sua mamma, Biancastella ne avesse raccolto il testimone, come se avesse racchiuso nel proprio giovane cuore tutto l'amore e la dedizione che la madre aveva per il marito, il suo papà, che lei si sentiva in dovere non solo di accudire da premurosa figlia, ma di proteggere da se stesso e dal fato, ingrato con lui fino a quel punto.

Ma una notte, una decisiva notte, la sua mamma Armida apparve in sogno al marito.

Era fulgida e bella come quando aspettava la bimba, aveva gli stesi occhi e i capelli della giovane Biancastella, lo stesso sorriso: ma una vena di ampia tristezza incupiva l'angelico volto.

E così parlò in sogno al marito: “Lei deve sposarsi, avere una sua vita felice, procreare e dedicarsi a un uomo tutto suo, la tua missione di padre e la sua di figlia, a questo punto, devono prendere strade parallele, devi cavartela da solo, mio caro Artemisio, ma sappi che io da quassù vigilerò sempre sul tuo cammino”.

Il buon Artemisio dapprima non diede peso al sogno, non volle dare peso! Che diamine, lui viveva per sua figlia ed ella per lui, come si poteva pensare che loro potessero vivere separati!

Ma era stata la buona, cara moglie Armida a parlare così, anche se solo in sogno, doveva lui, uomo probo e rispettoso di Dio, accettare il volere dell'aldilà, doveva mettersi in gioco e consentire alla sua adorata figlia di raccogliere una delle tante proposte di matrimonio che giungevano copiose da monti e da valli, da villici e da signori, da maniscalchi e da duchi, da stallieri e da conti....mancava solo il principe che arrivò ben presto sul suo bianco cavallo.

Adolfo era il principe di Terrabruciata, una terra di confine non lontana dal luogo ove abitava Biancastella, una terra prosperosa e ubertosa nonostante il tristo nome legato a un passato di battaglie e di devastazioni.

Adolfo era molto bello, alto, prestante, con il braccio da orso e il collo taurino, ricco, molto ricco: la nuova, incredibile, prospera fortuna di Terrabruciata era dovuta proprio alla ricchezza del principe Adolfo e alla sua oculata e … spregiudicata gestione di essa, legata a un governo deciso e non incline ai compromessi.

Certo era bello, ricco, forte e aitante, deciso e risoluto... ma anche un po' chiacchierato!

Si diceva, voce di popolo, che le sette mogli che aveva sposato lo avessero lasciato di notte, una dopo l'altra, fuggendo altrove, senza lasciare dietro di sé alcuna traccia. Si diceva che, stranamente, dopo ben sette matrimoni, non avesse ancora prole perché non amava i bambini, con i loro fastidiosi piagnistei e i loro continui capricci. Eppure poteva ben mantenersi una pletora di bambinaie e governanti... che strano!

Ma era così bello, così deciso, così sicuro di sé e soprattutto così ricco che Artemisio facilmente si convinse ad acconsentire a che la sua tenera, dolce figliuola convolasse a nozze con il baldo Adolfo.

E Biancastella?

Certo era attratta dalla fierezza belluina del principe, dal sapore mediorientale della sua virile bellezza, dalla sicurezza che emanava da quell'uomo avvezzo al comando, ma l'Amore era solo questo? Chissà, forse sì, forse no, d'altronde lei, giovin fanciulla per bene, non aveva termini di paragone, esperienze passate che potessero servire da punto di riferimento per donare il suo cuore senza tema di errare.

Che fare, seguire questa attrazione, forse fugace, o attendere ancora?

E prevalse la bontà.

Il principe Adolfo rappresentava l'occasione per lenire le pene del suo babbo: lei sarebbe divenuta principessa e il suo babbo non sarebbe più stato maniscalco, bensì suocero del principe, con tutti gli onori e i privilegi del caso.

Non più ferro rovente, puzzo di bestiame, carbone e vento negli occhi, non più sudore e duro e amaro pane comprato in virtù di scarsa mercede.

E con negli occhi il suo babbo vestito da re, non più ricurvo con le mani gonfie e bruciate, Biancastella acconsentì alle nozze.

E fu davvero un grandioso matrimonio, fastoso e imponente, ricco e sgargiante, con cinquecento invitati tutti provenienti dalla più alta nobiltà dei territori vicini e lontani.

Tutti recavano doni alla sposa, tutti si inchinavano deferenti e cortesi, i gentiluomini facevano il baciamano e le dame la riverenza, per poi tutti onorare il sontuoso banchetto approntato con ogni ben di Dio da uno stuolo di cuochi e camerieri.

Per la verità, durante il banchetto, serpeggiava un che di indefinito, un certo imbarazzo, una sopita brezza invernale che recava di bocca in bocca “l'ottava moglie”, con qualche risolino di accompagnamento.

Ma erano così intensi gli occhi di brace del principe tutti per lei, era così nitida l'immagine del babbo servito e riverito, che Biancastella non fece caso alla brezza e danzò felice con il suo sposo.

E iniziò per lei una nuova vita.

Agi, i cibi migliori, ancelle attente e servili, monili e preziosi, broccati e damaschi, ozi e piaceri.

Il suo babbo viveva anche lui in un'ala del castello, servito e riverito, ricco e adulato, ma un po' triste perché, in effetti, non poteva vedere Biancastella quando voleva.

Che diamine, lei era una donna sposata, ora! Una principessa! Doveva rispettarne tempi e ritmi, canoni e liturgie!

Biancastella era spesso sola, il principe aveva, d'altronde, innumerevoli impegni atti al proprio lignaggio: ma, tutto sommato, scoprì suo malgrado la giovane, era meglio così.

Il principe, infatti, quando era al castello, le poneva mille divieti: non scoprire il tuo volto, non guardare mai paggi e stallieri, non sfiorare mai, neppure con un dito, un oggetto toccato da un altro uomo, non aprire le finestre, non toglierti il mantello, non sbadigliare, non passeggiare in giardino, non mangiare mai nulla in pubblico, non correre, non saltare, non cogliere fiori, non giocare col gatto, non, non, non....

Almeno, quando lui era via, non vi erano il controllo assoluto su tutti questi divieti e l'immediata, tremenda sanzione in caso di infranto divieto.

Certo, restava il divieto assoluto, quello più fermo, più nero, il tremendo imposto divieto di aprire il cancello del giardino degli ulivi.

Una greve, profonda tristezza si impadroniva giorno dopo giorno della giovane principessa; un'inquietudine strana come quando ti svegli nel cuore della notte con il cuore in tumulto perché hai sognato l'orco, come quando non sai che ti aspetta al mattino perché la sera non ha portato oblio ristoratore, come quando un vortice impetuoso spazza via le certezze acquisite, come quando la persona a te più cara ti appare diversa perché ti ha tradito.

E giorno dopo giorno, divieto dopo divieto, ossessione dopo ossessione, l'ansia per il futuro cresceva, il tempo per il suo babbo svaniva, lo spazio vitale sfumava in una chiusura sempre più lapidaria.

Per fortuna che il principe viaggiava.

Così, al chiuso della sua stanza, Biancastella cantava, dapprima un canto tenue e sopito, ma poi sempre più dirompente, liberatorio, catartico.

Il canto, l'unico spazio rimastole per esprimere, per esprimersi, per evocare la gioventù che stava sfiorendo, per farsi sentire dal babbo adorato.

Certo, poteva vagare per il castello, pettinarsi, specchiarsi, scendere in giardino... già il giardino, delimitato sul fondo da un ampio cancello che immetteva in un boschetto di ulivi che si intravvedevano svettanti oltre il muro di cinta.

Ma guai a entrare nel bosco degli ulivi, il principe era stato categorico e tremendo: era quello il divieto assoluto!

Ma un giorno di solitudine più cocente, di ansia più fremente, di angoscia più pesante, di rabbia più pulsante, Biancastella spinse il cancello.

Ma perchè non poteva entrare tra gli ulivi? Che male avrebbe fatto? Al diavolo il principe e i suoi divieti! Ed entrò.

Un gelido vento la pervase, un puzzo mortifero quasi la fece svenire. Altro che profumo di ulivo, altro che brezza gentile, sembrava di essere al centro di una tormenta in un cimitero.

Un cupo sentore pervadeva il cuore di Biancastella, non sapeva definirla, ma una sensazione di torpore mefitico la faceva vacillare.

E vacillò, e sbandò, crollando addosso a un ulivo e spezzandogli un ramo.

“Ahi, perché mi tormenti, o bianca fanciulla” una voce la apostrofò.

“Chi parla?” rispose Biancastella spaventata.

“Sono Alice, la prima moglie del principe, ora sono un ulivo perchè dal mio corpo martoriato da lui e seppellito qui sotto è germogliato l'ulivo che ora mi riempie”. “Gli altri ulivi che vedi sono le altre mogli del principe, tutte uccise da lui e seppellite in questo terreno”.

Orrore, sgomento, terrore, incubo, angoscia, neri pensieri e più nere immagini colmarono di colpo la mente, gli occhi e il cuore della fanciulla.

Che insana commedia recitava il suo sposo, che vile e malata persona si era unita con lei, a chi aveva donato il suo cuore e la sua gioventù, a un bieco assassino, al peggiore degli uomini, a un orco famelico e grondante di sangue. Lei sarebbe stata il prossimo ulivo!

Doveva fuggire, ma come fare, il castello era circondato da alte mura, guardie fedeli ovunque, servitori occhiuti a ogni angolo, ancelle levantine ogni dove!

E pianse, pianse lacrime amare, copiose, salate che bagnavano la terra del bosco degli ulivi.

E, come per miracolo, un drago alato sorse dal terreno e si inchinò davanti a lei.

E una voce gentile parlò: “Biancastella, sono Sofia, la settima moglie, grazie per averci dissetato con le tue lacrime pure, sali sul drago, è il nostro dono per te, vola via dall'infame nostro destino, vola via e denuncia al mondo la nostra triste sorte in modo che il carnefice sia vilipeso e punito, noi ormai siamo morte e viviamo da ulivi, tu sei viva e devi vivere il tuo tempo lontano dagli orchi”.

Non senza ringraziare e accarezzare a uno a uno i sette alberi di ulivo, Biancastella montò sul drago, si accostò alla finestra del suo vecchio babbo facendolo salire e volò via verso una vita futura che, come il biancospino, doveva avere la bellezza e la grazia del fiore, ma anche la forza e la determinazione della spina come difesa da tutti gli orchi del mondo.

Testo tratto da: "Donne che corrono con gli orchi", di Elvezia Benini e Cecilia Malombra, Erga Edizioni.

LE AUTRICI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico. 

Associazione Pietra Filosofale

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La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 



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