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| 12 giugno 2019, 18:00

Paolo Borrometi a Genova: "Rischio infiltrazioni mafiose per Ponte Morandi? Cantone ha fatto bene a denunciarlo"

Il giornalista siciliano, sotto scorta dal 2014 perché condannato a morte da Cosa Nostra, presenta a Genova "Un morto ogni tanto", il suo libro sulle inchieste che ha condotto sulla "mafia invisibile". Lo abbiamo intervistato

Paolo Borrometi a Genova: "Rischio infiltrazioni mafiose per Ponte Morandi? Cantone ha fatto bene a denunciarlo"

“Ho solo iniziato a scrivere” ha affermato durante un’intervista. E “solo” per aver svolto il proprio dovere di cittadino e di giornalista, Paolo Borrometi, classe 1984, ragusano, vive sotto scorta dal 2014 per le inchieste condotte nella Sicilia Orientale sui clan mafiosi, da Scicli a Vittoria ad Augusta (in Italia sono 19 i giornalisti con la scorta e 176 quelli sottoposti a misure di vigilanza). Dopo i primi articoli di denuncia (pagati 3.10 euro lordi), sono arrivate le prime minacce – telefonate e proiettili recapitati a casa – un tentativo di incendio della casa, l’aggressione fisica, fino all’intercettazione dei mafiosi che progettavano il suo attentato con un’autobomba: “Ogni tanto un morticeddu vedi che serve! Per dare una calmata a tutti!”.

Queste inchieste, che gli sono costate la libertà – “fisica, ma non di pensiero” - sono confluite nel suo primo libro “Un morto ogni tanto” (Solferino ed.), che presenta a Genova venerdì 14 Giugno alle 18 alla Libreria Coop del Porto Antico. Nominato Cavaliere della Repubblica dal Presidente Mattarella (insieme alla collega Federica Angeli di Repubblica, anche lei sotto scorta), Borrometi, vincitore di numerosi premi giornalistici, è direttore del giornale online Laspia.it, su cui continua a pubblicare le inchieste, lavora per TV2000 ed è presidente dell’associazione Articolo21.

Ricordiamo, a chi ancora non conosce la tua storia, che il titolo del libro deriva dall’intercettazione di una frase, pronunciata tra mafiosi che dicevano, in siciliano, che “un morto ogni tanto serve”. E quel morto eri tu.

Il libro comprende una parte autobiografica, che, però, non è finalizzata alla drammatizzazione di una vita, sicuramente complessa e al cui centro c’è la paura, ma a raccontare le inchieste che ho fatto, perché in Italia c’è un territorio, quello della Sicilia Orientale, che è il baricentro di molti eventi. Per citare l’ultimo potremmo pensare al caso Palamara o al mercato ortofrutticolo di Vittoria o al più importante imprenditore del vino che va a investire nella zona affidandosi a un boss al 41 bis. Ho pensato quindi di raccontare a partire da un territorio e da una figura, quella di Giovanni Spampinato - uno dei nove giornalisti uccisi dalle mafie in Italia - e dalla mia paura; non di questi cinque anni di vita sotto scorta, ma dell’attentato che doveva essere realizzato con un’autobomba, secondo gli inquirenti con “un’eclatante azione omicidiaria”, che nelle intercettazioni appariva organizzata nei minimi dettagli. E avendo già subito un’aggressione che ha comportato un danno fisico permanente, condanne a morte da quattro clan diversi, 14 processi in corso, e la progettazione di un attentato, ecco che quella paura mi ha portato a raccontare tutto quello che sapevo il più velocemente possibile. Così è nato il libro.

Il sottotitolo recita: “La mia battaglia contro la mafia invisibile”: qual è? E in questa battaglia ha giocato sempre un ruolo la paura, di cui parli anche nel prologo, ma anche la tua ironia nel raccontare fatti drammatici.

Non so se ci sia ironia, c’è certamente voglia di non piegarsi, partendo da un presupposto che ha sempre influenzato i miei passi: un giornalista a conoscenza di un fatto, dopo averlo verificato deve semplicemente raccontarlo, non ha altre strade. Io ho conosciuto certi fatti, li ho studiati, ho raccolto le prove giornalistiche e ho raccontato dallo scioglimento del Comune di Scicli a quello di Vittoria, dal mercato ortofrutticolo a tutto quello che c’è dietro le agromafie e la mafia invisibile, che è di secondo livello, di un livello più alto, costituita da deputati e commercialisti, come quelli legati alle società della famiglia di Matteo Messina denaro. Quindi non si tratta solo di quella mafia che spara e attira l’attenzione, ma di una ancora più pericolosa, che fa affari sulle spalle di ognuno di noi. Sono una funzionale all’altra, mentre se andiamo a cercare la narrazione della coppola e della lupara non facciamo un buon servizio. E dal momento che è il giornalista che deve raccontare, è quello che io ho cercato di fare.

Hai affermato che “Un giornalista è prima di tutto un cittadino”: ma l’impegno civile lo hai nel Dna, a partire da tuo padre, assessore alla Sanità della Regione Sicilia e tra i pochi non indagati nel periodo di Tangentopoli.

La storia di ognuno di noi è inevitabilmente segnata dalla storia personale. Io ho un vissuto, che è quello che racconto nel prologo, e che, anche scrivendolo, mi ha permesso di comprendere, forse, quali fossero le radici socio-culturali del mio impegno. Avrei potuto fare l’avvocato nello studio di famiglia avviato da più generazioni e oggi sarei libero e probabilmente con una buona posizione economica, invece ho iniziato a fare il giornalista a 3,10 euro lordi ad articolo, per realizzare un sogno, che era quello di scrivere e per i sogni si lotta. Magari non si realizzano, ma la cosa più bella è proprio la lotta che si fa nel raggiungerli.

Cosa significa vivere sotto scorta?

La vita sotto scorta non è un privilegio, come qualcuno vuol fare credere, ma non è neanche da drammatizzare; è una vita piena di privazioni, ma come dico sempre quando vado nelle scuole: significa aver perso un pizzico di libertà fisica, ma aver tutelato la libertà più importante, che è semplicemente quella di pensiero e di parola.

Dalle tue inchieste giornalistiche sono partite le indagini come la prima sul Comune di Scicli, dove si gira il Commissario Montalbano.: Come mai spesso accade che le indagini prendano il via da un’inchiesta giornalistica e non viceversa?

Non voglio togliere meriti a Forze dell’Ordine e Magistratura, io sono vivo grazie a loro, ma penso che un’inchiesta giornalistica sia più veloce di un’indagine. E penso che ogni cittadino debba fare la propria parte e aiutare Forze dell’Ordine e Magistratura di questo Paese – che, secondo me, sono le migliori d’Europa e probabilmente del mondo - a fare chiarezza su tanti fatti. E in questo il ruolo del giornalista è fondamentale, perché rispetto agli inquirenti – spesso tra Procure non comunicano - e alla macchina burocratica, il giornalista può avere un campo d’azione più ampio. All’epoca della mia inchiesta su Scicli, per esempio, non c’erano denunce, ma con me i cittadini parlavano: è chiaro che il mio ruolo era diverso, ma le due funzioni, dell’inquirente e del giornalista, possono indubbiamente integrarsi e fare squadra.

L’organizzazione criminale si può chiamare Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta o Sacra Corona Unita, ma in realtà possiamo dire che è qualcosa che va al di là del nome e della geografia, perché ormai è un sistema diffuso ovunque, al sud e al nord, e più subdolo?

È così, anche se spesso commettiamo dei piccoli errori pensando che le organizzazioni criminali, soprattutto in campo mafioso, siano a compartimenti stagni, cioè che esistano separatamente Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta, mentre non ci rendiamo conto che parlano tra loro e stringono accordi, perché hanno compreso che è più utile spartirsi gli affari che dividersi e farsi la guerra. E questo è ciò che ho cercato di dimostrare con l’inchiesta sull’agromafia.

Dopo il crollo del ponte di Genova Raffaele Cantone ha subito denunciato il rischio di infiltrazioni mafiose nei lavori di demolizioni e ricostruzione. E proprio oggi la Dia era in cantiere a effettuare dei controlli…

Facciamo un passo indietro: quello che accadde a Genova col Ponte Morandi - col rispetto e la sofferenza per chi non c’è più - sembra la metafora del Paese, cioè cade il ponte e iniziamo a controllare tutti i ponti, ragionando sempre sull’emergenza, mentre quello che dovremmo fare dovrebbe essere la prevenzione. Poi c’è l’allarme infiltrazioni: che la Liguria non sia immune è superfluo dirlo, perché non solo ci sono, ma esiste anche un forte radicamento nella regione delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, di cui abbiamo tanti segnali, come anche i reati spia, a farcelo comprendere. Per quanto riguarda la ricostruzione sappiamo che purtroppo esiste in Italia il fenomeno della corruzione, che Don Ciotti definisce come “l’altra faccia della stessa medaglia delle mafie”, per cui nel momento in cui ci sono le mafie e a Genova c’è un affare importante non solo come la ricostruzione del ponte, ma anche semplicemente come lo smaltimento dei rifiuti, fa bene Cantone a levare alta la voce per prevenire.

A Ostia la mafia sembra, forse, essere sconfitta a causa della testata di Spada al giornalista Piervincenzi: è la violenza a costringere lo Stato a prendere contromisure?

È per la forza dell’immagine che provoca indignazione. Le organizzazioni criminali di stampo mafioso indigene a Roma e Ostia ci sono da tanti anni, ma la forza visiva della testata data da Spada al collega Piervincenzi, che abbiamo visto tutto e che ha fatto il giro del mondo, ha creato un’indignazione tale, da indurre il Capo della Polizia Gabrielli ad affermare che non ci possono essere zone franche nello Stato, e da lì a un susseguirsi di operazioni di Polizia mai come prima. Questo perché anche i tempi della magistratura, quando c’è un’emergenza, in questo caso provocata dall’indignazione della gente, accelerano come le indagini, che già erano sicuramente in corso. Tutto ciò, però, ci deve insegnare che per agire non possiamo aspettare che accada il fatto eclatante, come la testata di Spada o l’attentato scoperto a Borrometi, ma bisogna farlo prima.

 

 

Medea Garrone

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