- 28 aprile 2019, 14:05

Federico Bonadonna e Lino Guanciale a Genova: "Hostia", quando il male si trasforma in libertà (e fiction)

Presentato a Genova il romanzo di Federico Bonadonna "Hostia". Con lui l'attore Lino Guanciale, che ne vuol trarre un testo per una serie tv o un film (VIDEO)

Federico Bonadonna

“Libertà è ciò che fai di quello che ti è stato fatto”. Questa è la chiave – o una delle chiavi possibili – di lettura del romanzo, ma anche della vita: saper rielaborare e superare i torti subiti senza farsi perenne vittima.

Infatti nel libro di Federico Bonadonna, “Hostia. L’innocenza del male” (in latino hostia significa “vittima”, oltre a indicare il quartiere sul litorale romano), edito da Robin Round (tra i 30 selezionati per il Premio Strega 2019) e presentato il 27 Aprile a Genova con Lino Guanciale (che ne vuol trarre la sceneggiatura per una fiction o un film - LEGGI QUI), tutto ruota attorno alla citazione di Sartre.

Hostia/Ostia, luogo fisico e condizione mentale, quindi, sono quelli descritti nel libro, che, se da un lato potrebbe evocare romanzi e relative serie tv come “Suburra” e “Gomorra”, dall’altro se ne distacca nettamente, anche se, allo stesso modo, dovrebbe diventare un copione cinematografico cui Guanciale sta lavorando.

Infatti, sebbene anche in questo caso si ritrovi un accenno al “mondo di mezzo”, cioè alla classe politica corrotta e allo scontro ideologico tra Destra e Sinistra, i personaggi sono ben distanti, come anche il periodo in cui si svolgono i fatti. Qui a essere protagonisti, alla fine degli anni '80, non sono gli eroi negativi e maledetti, ma sono quelli che Don Gallo avrebbe definito gli “ultimi”: drogati, prostitute, carcerati, persone borderline. Sono coloro che appunto vivono ai “margini”, quelli fisici delle periferie degradate (Ostia come Begato o qualsiasi quartiere d'Italia) e dei sobborghi cementificati (i "nonluoghi", secondo la definizione di Marc Augè), e quelli mentali, di chi è tenuto a distanza dagli altri.

Tutti loro, quindi, sono destinati ineluttabilmente a essere vittime a causa di un male originario nato in seno alla famiglia? No, perché, come racconta la storia di Bonadonna – anche attraverso descrizioni molto crude - la possibilità di ribaltare la propria sorte ed essere soggetti attivi e non più passivi, esiste. Ed è quello che accade a Martino, il giovane psicologo dai molti lati oscuri (traditore compulsivo e spacciatore di droga), ed Emma, la bambina, a dir poco “difficile” (aggressiva, autolesionista, imbarazzante) di cui deve occuparsi in qualità di direttore del servizio sociale di Ostia. Le loro strade e i loro linguaggi si incrociano fatalmente, diventando l’uno per l’altra l’unica via da percorrere per affrancarsi dai torti subiti.

È così che attraverso una pluralità di linguaggi e di metalinguaggio – aspetto fondamentale dell’opera – , emerge la personalità dei due protagonisti, che in parte sono complementari e specchio in cui riflettersi reciprocamente. C’è la lingua parlata e balbettata, c’è il dialetto romanesco, c’è il linguaggio universale della musica (rock, pop e punk degli anni Ottanta fanno da colonna sonora e scandiscono le vicende del libro), c’è la lingua scritta e soprattutto c’è il linguaggio del corpo, il non detto attraverso le parole, ma espresso chiaramente dai gesti.

E dunque c’è il modo di parlare che è proprio dell’inconscio, quello che lo psicoanalista Jaques Lacan definisce “lalalingua”, cioè quella particolare tipologia di comunicazione che determina l'unicità di ogni persona e che deriva dai primi contatti, quelli avuti nei primi mesi e anni di vita: i primi gesti, le prime parole, le prime sensazioni ed emozioni. E se dunque il rapporto con l’Altro scava nel bambino dei “solchi” indelebili – che si traducono in traumi o in effetti benefici – se tale rapporto è stato difficile, costituito da violenza, urli, insulti, sopraffazioni e abusi, è inevitabile che quel bambino o quel bambino ormai adulto, risenta di questi atti perpetrati nel tempo.

Qual è la soluzione? L’andare da uno psicologo, rielaborare le proprie ferite interiori e usare l’autobiografia per guarire (ne ha perfino scritto una guida Duccio Demetrio, in “Raccontarsi”). Autoanalisi e scrittura come cura di sé possono essere le soluzioni da cui, tra l'altro, nasce anche il processo creativo. E poi c’è il perdono. Saper andare oltre ciò che si è subito per rinascere ed essere liberi di rinascere a nuova vita, per avere la libertà di usare al meglio quanto di peggio ci è stato fatto.

Da qui deriva anche la mancanza di giudizio che si prova nei confronti di questi “ultimi” di Hostia/Ostia: la narrazione dei fatti, la psicologia di queste persone fragili spinge chi legge a non essere giudicante, ma, semmai, empatico e compassionevole. Anche perché è Bonadonna stesso a non spingere mai in questa direzione. Insomma, “Hostia” è un libro dalle molteplici chiavi interpretative, dalle prospettive mutevoli, che tratta anche diverse tematiche, da quelle sociali (che l'autore conosce bene, avendo lavorato per molti anni come consulente del Comune di Roma) – periferie, recupero dei tossicodipendenti, affidi familiari, rapporti genitori-figli – a quelle più intimistiche e psicologiche.

Come scrive Massimo Recalcati a proposito dei libri, potremmo dire che “Hostia” è come un “coltello”, perché taglia la nostra vita in due, mutandola e delimitando il pre e il post lettura, è un “corpo”, perché è in grado di trasformarsi in “corpo erotico” in grado di suscitare il nostro interesse, ed è un “mare”, perché si apre a infinite interpretazioni.

Ecco la presentazione di "Hostia" con Lino Guanciale e una breve intervista a Federico Bonadonna:

 

Medea Garrone