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| 26 aprile 2019, 11:45

Lino Guanciale e la 'finctionalizzazione': "Saper comunicare significa fare politica culturale"

Lino Guanciale è a Genova per interpretare “La classe operaia va in paradiso” e presentare il libro di Federico Bonadonna, “Hostia”. Gli abbiamo fatto un po’ di domande sui progetti futuri e sul nuovo modo di fare docufiction

Lino Guanciale e la 'finctionalizzazione': "Saper comunicare significa fare politica culturale"

Il celebre attore Lino Guanciale è a Genova per interpretare “La classe operaia va in paradiso” al Teatro Nazionale (leggi QUI l’intervista), ma anche per presentare il libro di Federico Bonadonna, “Hostia. L’innocenza del male” (Round Robin ed.), che potrebbe diventare la sceneggiatura per un film o una serie televisiva. A lui che è noto al grande pubblico per fiction di successo, dall’”Allieva” alla Porta Rossa”, dalla “Dama velata” a “Non dirlo al mio capo” e “Che Dio ci aiuti”, e che abbiamo visto di recente in tv nel documentario “L’Aquila 3:32”, abbiamo fatto un po’ di domande sui progetti futuri e su un nuovo modo di fare docufiction.

Il 27 aprile presenterai qui a Genova il libro di Federico Bonadonna “Hostia”: so che state cercando di scriverne la sceneggiatura per la tv o il cinema.

Sì, io, Federico e altri, come Cecilia Dazzi, stiamo lavorando sulla trasposizione del romanzo in un format che sia un film o una serie, perché crediamo che sia importante che questo libro arrivi a più persone possibili e perché effettivamente è già scritto con una forma che invita moltissimo alla costruzione di immagini. Per cui anche le presentazioni che stiamo facendo in giro per l’Italia sono per noi occasioni di test, anche per capire che chiave utilizzare per raccontare quest’opera, la cui materia è molto cruda. Non a caso, pur essendo stato pubblicato da una piccola casa editrice e pur essendo Federico un esordiente, è arrivato anche nella selezione del Premio Strega, quindi è un libro notevole. E crediamo siamo importante anche perché racconta l’altra faccia, più concreta e urgente da descrive, del degrado delle periferie, che, descritte solo in termini di 'crime sparatoriale' – anche con prodotti di altissima levatura come Suburra e Gomorra – attuano un processo di spettacolarizzazione della realtà che elude la responsabilità del racconto umano, e quindi della quotidiana di chi vive questi posti. “Hostia”, invece, va a colmare questa lacuna. Inoltre ha una molteplicità di registri al suo interno, per cui abbiamo scoperto che può essere anche molto divertente leggendolo pubblicamente. Credo, quindi, che seguiremo questa direzione nella trasposizione che vorremmo farne.

A proposito di fiction: è vero che dal Commissario fantasma passerai al Commissario che vede i fantasmi? Cioè Ricciardi nella nuova serie di Rai Uno?

Non c’è ancora l’ufficialità, ne stiamo parlando e a me piacerebbe moltissimo, sarei onorato di farlo, perché il personaggio è importante e De Giovanni è un grande scrittore della narrativa di genere dei nostri tempi, ma ancora non c’è alcun contratto e nulla di sicuro.

Purtroppo si sono commemorati di recente i 10 anni del terremoto e hai condotto il docufilm “Aquila 3.32”, che è stato un format  diverso dal solito. Infatti è stato definito come una “nuova drammaturgia” e “finctionalizzazione”, cioè un prodotto a metà tra fiction e informazione. Lo scopo era effettivamente questo?

Sì, è lo stesso processo che è in atto in alcun ambiti culturali e accademici. Per esempio oggi gli storici cercano di narrativizzare molto di più che in passato i propri testi scientifici, e infatti in libreria si trovano molti testi storici scritti alla maniera del romanzo o della serie di racconti. Questa è un’operazione intelligente da fare, perché, vivendo in un'epoca in cui la divulgazione dei contenuti scientifici è essenziale, non si può più scrivere solo per il proprio pubblico accademico, perché c'è un'emergenza culturale fortissima. Bisogna, quindi, aprire le porte della cultura, usando non un linguaggio che banalizzi, ma semplicemente delle tecniche di storytelling che riescano ad appassionare e agganciare un numero maggiore di persone, rispetto al passato, ai contenuti proposti. Questo processo avviene anche nella documentaristica, e quello che abbiamo fatto con “L’Aquila 3:32” resta in questo solco. Il processo di “fictionalizzazione”, che è in atto in vari ambiti di scrittura, è sano che passi anche nella drammaturgia e nella drammaturgia televisiva e cinematografica, perché così si arriva, senza tradire la rigorosità del metodo, a un numero più cospicuo di persone. La strada di chi pensa si debbano usare i metodi classici per tenere alta l’esposizione dei contenuti, ci ha portato a produrre più ignoranza dei tempi precedenti: viviamo in un’epoca con un analfabetismo culturale di ritorno imbarazzante. Ci sono oggi più semicolti che colti veri; almeno una volta c’erano i colti veri e le persone ignoranti; i semicolti sono alfabetizzati, ma non sono molto più avanti degli ignoranti di ieri e non hanno possibilità d’accesso a determinati contenuti. Chi invece ha una cultura d’alto livello deve prendersi la responsabilità di imparare a comunicarla: questa è politica culturale. Chi non lo capisce si sente più a proprio agio se in teatro o nell’aula universitaria sono in ‘tre’, perché evidentemente è più gratificato, ma quella di tenere la cultura chiusa nelle élite non è altro che un’operazione egoistica ed egotica. Quindi la strada è quella e credo che l’obiettivo sia stato raggiunto, cioè quello di avere in prima serata su Rai Due un milione di telespettatori – come avviene con le serie crime - con un documentario su i ragazzi dell’Università morti e sopravvissuti all’Aquila.

Medea Garrone

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