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| 25 aprile 2019, 10:56

Lino Guanciale a Genova: "Oggi i lavoratori sono più precari e più soli di Lulù Massa"

Il noto attore è a Genova per "La classe operaia va in paradiso". Lo abbiamo intervistato per parlare della condizione attuale di lavoratori, giovani, donne (Guarda il TRAILER dello spettacolo)

Lino Guanciale a Genova: "Oggi i lavoratori sono più precari e più soli di Lulù Massa"

Da Esiodo ad Amazon, passando per “Porci con le ali” e il Cantacronache. “La classe operaia va in paradiso” nella versione teatrale di Claudio Longhi, Paolo Di Paolo (regista e sceneggiatore) e Lino Guanciale (vincitore del Premio Ubu come miglior attore), è decisamente un’opera brechtiana, complessa e “stratificata” (nei riferimenti e nel linguaggio), la cui lettura è possibile, appunto, a vari livelli, da quello più colto a quello più immediato, per così dire “di pancia”. Ed è, come tutti i lavori di Lino Guanciale, un’opera di “teatro politico”, rivolto al pubblico e alla sua coscienza.

Lo abbiamo intervistato, mentre è in scena al Teatro della Corte fino al 28 Aprile, per parlare dello spettacolo, ma soprattutto del mondo del lavoro di oggi, dei cambiamenti possibili, della condizione dei giovani e delle donne (ricordando che il 26 Aprile incontrerà il pubblico con Claudio Longhi, Maurizio Landini, Gad Lerner e la compagnia, alle ore 17.30).

Spieghiamo come avete trasposto e attualizzato, tu e il regista Claudio Longhi, l’opera di Petri, in un complesso sistema di rimandi non solo al cinema”, ma anche alla letteratura e alla musica degli anni ‘60.

È stato un lavoro di rimontaggio e di decostruzione di un testo cinematografico: il nostro interesse nei confronti del cinema, riletto a teatro, non era quello del semplice adattamento, ma si è trattato di aprire una specie di ‘cantiere’ intorno a un grande classico, che rendesse ragione di come era stato concepito, costruito e anche recepito dal pubblico dell’epoca. Due anni e mezzo fa Claudio stava preparando la sua domanda di partecipazione al concorso per diventare direttore di ERT (Emilia Romagna Teatro) e ha dovuto preconizzare un eventuale triennio da direttore, e mi ha chiesto, visti i temi della sua proposta, che erano crisi e lavoro, se avevo in mente un titolo della nostra cinematografia orientato su quei temi e su cui fosse interessante fare il tipo di lavoro che sognavamo di fare da un po’. Così, di slancio, ho proposto “La classe operaia va in paradiso”. Una volta rivisto insieme il film e fatte delle valutazioni, anche con Paolo di Paolo e tutti i ragazzi del gruppo - con cui lavoriamo da dieci anni - è stato felice di imbarcarsi in questo lavoro. Il film è una strana creatura imperfetta, ma affascinante e potente, che al suo interno ha diversi livelli profetici sul futuro da lì a una quarantina d’anni. Sostanzialmente è un po' come Cassandra: del tutto inascoltato e rigettato all'epoca, ma dice delle cose che poi sono diventate la nostra realtà a guardarla oggi.

Oggi alla catena di montaggio è l’algoritmo a dettare i tempi di produzione: vedi Amazon che ha un algoritmo che impone di confezionare un pacco. Lo spettacolo tratta del tema dell’uomo-macchina: c’è in atto oggi un ulteriore processo di disumanizzazione dell’uomo?

Sì, indubbiamente questo è lo stadio attuale della alienazione che si patisce non solo sul posto di lavoro, ma ormai in tutti i nostri spazi, perfino privati. Effettivamente, come dice Militina, trent’anni a ripetere gli stessi gesti con un tempo dettato da altri, un margine di creatività ridotta a zero e la testa tutta involta in questo compito disumano per otto o nove ore al giorno, determinano anche che fuori questa costrizione, che è quasi teologicamente implacabile se non è dettata da una persona in carne e ossa, come il cronometrista, ma da un dato astratto come un calcolo informatico. La sostanza delle cose cambia poco, ma ci dice molto del nostro oggi, di quanto le nostre relazioni siano ormai tutte reificate. Questo riguarda sia Amazon sia altri contesti, non meno implacabili e citati nell’opera. Si tratta di una mentalità che si è spostata sempre più verso la formula di una specie di schiavitù volontaria che si accetta per poter partecipare, avendo delle risorse liquide e capacità di riscossione di credito, al gioco dei consumi, senza i quali ci troviamo fuori dalla società, come se fossimo dei paria.

A proposito di uomo-macchina, secondo il noto psicoanalista Massimo Recalcati questo tipo di disumanizzazione provoca l’assenza del desiderio e in psicoanalisi niente è peggiore per un uomo che non avere accesso al proprio desiderio. Possiamo dire che è quello che accade a Lulù Massa finché non si taglia il dito?

La struttura della sceneggiatura, in termini di costruzione del personaggio, è rigorosamente psicanalitica, fino allo schematismo. E la perdita della falange si può intendere come un atto mancato. In un sistema diventato ormai insostenibile, Lulù, campione del padrone, ha la libido tutta concentrata sulla macchina e la battuta “un pezzo un culo” non è che un’iperbole metaforica, neanche troppo allusiva, che racconta questo. Lulù ha un rapporto fisico di desiderio nei confronti del proprio lavoro alla macchina, e questo annulla la sua partecipazione al desiderio fuori dalla fabbrica. Io credo che questo sia vero, e nelle intenzioni di Petri e Pirro c’era, tra le altre, quella di raccontare questo processo di nevrotizzazione e alienazione dovuto al lavoro, che effettivamente riguarda tutti. Viviamo in un sistema che concentra il nostro desiderio sulla propria singola affermazione nel luogo di lavoro, e questo, in qualche modo, sconvolge la natura delle relazioni naturali.

Ormai, nella cosiddetta “età della tecnica” coniata da Galimberti, non c’è più la possibilità di rivoluzione e non c’è più la concezione del potere di una volta, perché non ci sono più due volontà contrapposte, i signori e i servi - come avrebbe detto Hegel – che ormai sono entrambi dalla stessa parte e che hanno, come controparte, il mercato e la tecnologia. Come può esserci, quindi, un cambiamento?

Ci può essere nel momento in cui una delle parti apre i propri occhi e si rende conto che questo sistema non può andarle bene. Non c’è rivoluzione finché c’è un tacito patto per cui a entrambe le parti la situazione va bene così com’è. E finché in qualche modo la parte dei servi riesce a permettersi l'acquisto di alcuni oggetti che sono status symbol, che raccontano illusoriamente la partecipazione al mondo dei padroni, non può esserci cambiamento. Un po’ come raccontavano Petri, Pasolini e altre voci in qualche modo “eretiche” della sinistra degli anni Sessanta e Settanta, finché – citando il personaggio Lidia - è possibile sognare e acquistare, lavorando, la pelliccia di visone, difficilmente può esserci rivoluzione, perché, come diceva Edoardo Sanguineti, alla coscienza di classe si sostituisce la pubblicità. Le immagini di Carosello in cui si vendeva a buon mercato una serie di oggetti, hanno creano la percezione di sé come partecipi del mondo dei padroni, del mondo borghese, cioè il “paradiso miglior che ci sia e che s’è avverato”. La rivoluzione c’è quando Spartaco si rende conto di avere le catene ai piedi e a questo punto ci sono due strade: o si continua a pensare che sia l'unico mondo possibile o si cerca un’alternativa. Finché la parte dei servi non si renderà conto della propria servitù, cioè finché, inconsciamente, non ci saranno più margini di convenienza a stare in questa condizione, non ci potrà essere cambiamento reale.

E la classe politica?

Il compito della sinistra o delle forze politiche progressiste dovrebbe essere quello di elaborare le alternative, anche se è diventato molto difficile, perché la vittoria è stata talmente schiacciante in questi cinquant’anni da parte della società dei consumi, che è diventata la forma del nostro vivere, e la sostanza dei nostri rapporti è imperniata su quel modello. Ormai non si tratta di dover fare una rivoluzione in senso politico, ma di un’eversione totale anche nel nostro modo di intendere i rapporti fra di noi.

Com'è cambiato il rapporto tra studenti, sindacati e lavoratori?

Cosa ne è della lotta comune, oggi? Questo ce lo dicono i giovani. Questo spettacolo è amato soprattutto dai teen-ager, perché le persone fino a 30 anni si riconoscono subito nella vicenda di Lulù e in quel mondo. Ma lamentano il fatto che all’epoca ci fossero delle comunità di riferimento cui rivolgersi in caso di bisogno, mentre oggi mancano. E non solo mancano, ma concepiamo – secondo la deriva esistenziale cui accennavo prima - il nostro rapporto con il lavoro e anche con la nostra stessa soddisfazione in termini eminentemente individuali. Questo forse è il risultato più alto raggiunto dai padroni, perché c’è una parte che sfrutta e una parte che viene sfruttata nel mondo. I giovani sognano l’affermazione individuale: di fare gli influencer su Instagram o di creare l’app che ti risolve la vita. Cioè l’idea è quella del colpo di fortuna personale.

Ma la classe operaia esiste ancora?

Oggi quello che dovremmo ricostruire è il senso di comunità, perché effettivamente la classe operaia potrebbe esserci; la classe sociale, virtuale per così dire, del lavoratore sfruttato, subordinato, non è che non esista più, come raccontano quelli cui fa comodo, ma si è allargata. Non ci sono al suo interno solo gli operai alla Lulù, ma ci sono i cognitariati, quella messe di giovani altamente formati che finiscono per fare i disoccupati o fare lavori non all’altezza dei loro studi, e ci sono lavoratori meno tutelati di Lulù. Esiste una valanga di tipologie di lavoro che rientrano tutte potenzialmente nel lavoro sfruttato, privo di diritti. Dovremmo costruire una nuova formula di coscienza di classe attraverso cui i lavoratori che hanno formazioni diverse possano incontrarsi in una piattaforma che li rappresenti. Film e spettacolo parlano con un lessico che non c’è più – lotta operaia, classe operaia – ma i referenti di quel lessico esistono ancora. La cultura egemone, per dirla alla Gramsci, non ha fatto altro che piazza pulita del vocabolario della parte opposta, per illudere che siano superate, oltre che le parole, anche quelle realtà cui si riferiscono. Ma non è così: il lavoro sfruttato e privo di diritti esiste oggi più di allora; quindi si dovrebbe costruire una comunità tra tutti coloro che possano riconoscersi in questa classe operaia 2.0.

E le donne lavoratrici? Nel film e nello spettacolo sono rappresentate, ma sono figure ancora marginali.

Il film non è un film maschilista, racconta una realtà che è tutta maschile, in cui per descrivere la condizione delle donne non si può che raccontarla in forma di minoranza, rappresentata, però, da due figure, quelle di Lidia e Adalgisa, molto potenti. Se da un lato “La classe operaia va in paradiso” è un mondo assolutamente maschilista, dall’altro attraverso loro, che hanno grande potenza espressiva, racconta bene la realtà femminile dell’epoca e anche il potenziale di rivendicazione, di cui Adalgisa è esempio. Il film è utile per raccontare anche oggi una condizione, che è migliorata, anche perché le donne hanno preso più coscienza di sé e praticato forme di rivendicazione forti, anche se la strada da fare è ancora lunga. Inoltre, allora come oggi, aiuta a indagare una crisi del maschile: ritengo che esista una coscienza femminile da parte delle donne, ma non una nuova coscienza maschile da parte degli uomini. Chi è più indietro sono i maschi, che sarebbe necessario avessero un nuovo modello di maschile, al passo con i tempi e in complementarietà con quello femminile, che ha già iniziato a codificarsi. Solo questo potrebbe portare a un cambiamento culturale. In qualche modo lo spettacolo cerca di raccontare un po’ anche questo, traendo spunti di riflessione critica forte dal film. Nello spettacolo abbiamo voluto farlo anche attraverso i riferimenti a due personaggi femminili della letteratura, quello della “Ragazza Carla” e quello di “Porci con le ali”.

 

 

Medea Garrone

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