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| 02 aprile 2019, 18:00

Sara Daneri, dalla Liguria al GSSI: "Sono un cervello di ritorno per fare matematica applicata"

Sara Daneri è un ex cervello in fuga ligure, che ha deciso di fare ricerca in matematica tornando in Italia. Oggi fa la ricercatrice al prestigioso Gran Sasso Science Institute. L'intervista

Sara Daneri sulla terrazza del Gran Sasso Science Institute all'Aquila

Sara Daneri sulla terrazza del Gran Sasso Science Institute all'Aquila

È nata a Chiavari, dove ha frequentato il liceo, ma è vissuta a Bonassola e ha fatto l’Università a Pavia. Ma poi, dopo la prestigiosa SISSA di Trieste è partita per fare la ricercatrice all’estero, dalla Svizzera alla Germania, dove era Junior Professor. Eppure Sara Daneri, 35 anni, è oggi un ex “cervello in fuga”. Da meno di un mese, infatti, è al Gran Sasso Science Institute (GSSI), altro centro italiano d’eccellenza, dove studi diversi campi d’applicazione pratica della matematica, da quelli studiati da John Nash ad Alessio Figalli. Ci ha spiegato il suo tipo di ricerche, ma anche perché è tornata e che cosa significa essere una ricercatrice all’interno di un sistema che è “anti-famiglia”.

Siamo abituati a pensare alla matematica come a qualcosa di molto astratto, ma in realtà non è così, come dimostrano i progetti a cui lavora e ai campi d’applicazione che hanno.

Ci sono diversi livelli di applicazione e io faccio matematica già applicata. Per applicata si intende la matematica che studia modelli di fenomeni della vita reale, anche se non sempre i suoi risultati possono essere usati direttamente negli esperimenti. Tali modelli non riguardano solo la fisica. Al GSSI ci sono in-fatti gruppi di ricerca che si occupano di studi urbanistici e scienze regionali, quindi pianificazione urbana, con componente di studi economici e sociologia. Ci si occupa non solo di organizzazione di città ma anche di migrazioni e in-novazione. Ho sempre avuto una passione per la scienza, fin da bambina - dall'età di 5 anni sapevo che volevo farne il mio mestiere - soprattutto voglia di scoprire qualcosa di nuovo. La ricerca matematica in realtà è molto diversa da come uno spesso la pensa a scuola, ovvero come un insieme di regole e calcoli: quelli sono solo gli strumenti che uno ha a disposizione per scoprire gli oggetti di cui si occupa, capirne le loro proprietà. La matematica applicata, di cui mi occupo, si distingue per studiare oggetti astratti ma che rappresentano un modello per degli oggetti fisici. La soddisfazione più grande è quella di riuscire a sviluppare tecniche matematiche e strumenti astratti per dimostra-re proprietà di questi oggetti che si congetturano essere vere dal punto di vista fisico, ma di cui non esiste ancora una giustificazione rigorosa. Altra cosa che magari non è nota a chi non è del campo, è che spesso pur trattando oggetti astratti, l'idea per risolvere un problema si ha analizzando esempi particolari, più concreti, che si riescono a visualizzare geometricamente nella propria mente o su un foglio di carta. Quindi l'idea per chi ha capito il problema è una cosa tangibile: dietro alle formule di un articolo - che ci servono per rendere leggibile quell'immagine, quel comportamento degli oggetti che abbiamo in testa - si nasconde un concetto più concreto di quello che un non addetto possa immaginare. E poi, altra cosa che mi affascina della matematica, oltre alla scoperta delle proprietà dei suoi oggetti - che modellano nel caso della matematica applicata oggetti fisici - è l'eleganza che si ritrova in alcune delle sue dimostrazioni, la loro bellezza. Pur necessitando di ragionamenti spesso molto complicati, una dimostrazione è elegante se riesce a trovare la strada più pulita e semplice possibile per arrivare all'obiettivo, minimizzando i calcoli insomma.

Tra i diversi ambiti, lei studia la fluidodinamica: quali risvolti pratici ha?

Mi occupo di dinamica di fluidi e in particolare mi interessa studiare i modelli di fluidodinamica in situazioni critiche in cui si formano le turbolenze. Quando, per esempio si muove l’ala di un aereo, cioè quando l’aria, che è un fluido - perché lo sono non solo i liquidi ma anche i gas di certa densità - incontra l’ala dell’aereo, l’aria crea vortici e forma turbolenze. Quindi è importante capire come questo influisca sul moto degli aerei. In generale cosa fa un fluido, in questo caso l’aria, quando incontra un ostacolo? Qui ci sono diversi livelli di applicazione, come quelli ingegneristici, che sono i più applicati, e in cui si fanno approssimazioni numeriche sui modelli, poi si simula nella galleria del vento e così via. Noi invece prendiamo il modello originale e cerchiamo di capire cosa ci può dire sulle turbolenze, cioè cosa succede al modello in questa fase. Quello che ho studiato è che in regimi in cui si possono sviluppare i vortici, uno dei modelli classici che si studiano (le equazioni di Eulero) – dato il fluido a un certo istante iniziale- fornisce infiniti possibili moti: cioè in questi regimi il modello astratto non è in grado di darmi una sola risposta, ma infinite soluzioni. Mentre in fisica la risposta è una sola. Questo ha suscitato un grande interesse sul modello - che è un caso limite del famoso modello di Navier-Stokes per la cui unicità c’è in palio un milione di dollari -. Quello che è interessante dal punto di vista matematico è che questo modello in questi regimi inizia ad avere comportamenti strani, per esempio a darmi infinite soluzioni, mentre in regimi classici ha unicità delle soluzioni. L’esistenza di una soglia che separa i due comportamenti del modello è stata congetturata nel ’49 da Onsager ma è stata dimostrata solo recentemente, utilizzando idee alle quali anch’io ho contribuito. Questo non succede solo in fluidodinamica, c’è una classe di problemi anche in meccanica dei materiali e geometria, in cui, se si considerano modelli per oggetti con un certo grado di regolarità, allora si ha un’unica soluzione del problema, mentre se abbasso la soglia di regolarità trovo infinite soluzioni. Quindi c’è una soglia che mi separa i comportamenti. Pioniere in questo tipo di problemi, in ambito geometrico, è stato il famoso John Nash, alle cui tecniche ci si ispira ancora oggi anche in campi apparentemente così diversi come la fluidodinamica o la meccanica dei materiali.

Invece in che cosa consiste la “pattern formation”?

L’ambito riguarda il comportamento di due materiali, come i polimeri, o in biologia soluzioni proteiche, cioè proteine o colloidi immersi in un liquido, che sono sottoposte a due forze che si contrastano, cioè che sono in competizione: una vorrebbe che uno dei due materiali si concentrasse in un’unica zona e l’altra che si alternassero il più possibile zone occupate dal primo e dal secondo materiale. Nella competizione se vincesse la prima forza tutto si concentrerebbe in una pallina, se vincesse la seconda, invece, avrei quasi un miscuglio delle sostanze e non vedrei niente, mentre ci sono regimi in cui queste forze si bilanciano in modo tale che i due materiali delle due specie si dispongano in strutture periodiche. Per esempio le strisce tutte alternate, una di un materiale e una dell’altro, o pallini messi sui vertici di quadrati e tutti con stessa distanza l’uno dall’altro e quindi con la stessa periodicità. Quindi ho la figura che si ripete.

Invece nell’ambito della “pattern formation” le applicazioni sono varie?

Le applicazioni sono diverse: il fatto che quei materiali formino delle strutture, fa sì che si sia riusciti a costruire supporti di memoria dati, per pc eccetera, che sono piccolissimi - si parla di nanometri - invece di farlo con tecniche di nanotecnologia. Gli ingegneri hanno messo i materiali che costruiscono i pattern sotto forze opportune, e da sole i materiali sono riusciti a costruire le strutture, che sono quelle su cui si memorizza l’informazione. Agli ingegneri, infatti, servono supporti con una certa struttura: invece di costruirli a dimensioni molto piccole, che è anche difficile, prendono i materiali particolari e da soli, con un campo di forza, creano le strutture. Questo è il “self assembly”, e si è provato a livello sperimentale che in questo modo si raggiungono dimensioni ancora più piccole e migliori che con le nanotecnologie. Quindi si fa autoassemblaggio di strutture per memoria di dati. Altra cosa: usando la patterrn formation in colloidi e strutture organiche col fatto che formano strutture periodiche, è stato possibile creare filtri da usare in laboratorio: sono filtri di micrometri e nanometri, che, attraverso fori molti piccoli, filtrano le sostanze trattenendo quella che vogliono. Questa capacità dei pattern è osservata sperimentalmente in certi regimi, e anche simulata numericamente per molti dei modelli, ma il difficile è dimostrare matematicamente che il modello usato preferisca questi stati periodici. Dimostrare matematicamente quale sia la struttura geometrica degli stati fisici del modello è un problema ancora aperto per molti modelli. L’ho dimostrato per alcuni, tra cui quello usato per i colloidi.

Invece in che cosa consiste il trasporto ottimo?

Molto semplificando: date delle risorse e un certo insieme di luoghi dove collocarle - per esempio un certo numero di consumatori da spostare in diversi supermercati in città - come suddividere le risorse nei vari posti? calcolare quali possono essere nella distribuzione, minimizzando un certo costo? Come trasportare in modo ottimale delle risorse da una zona a un’altra? Il costo può essere la distanza, che cerco di minimizzare. Può esserci anche un fattore di traffico: non voglio ci sia congestione e che tutti vadano nello stesso supermercato. Si prendono, quindi, i modelli del trasporto ottimo e per esempio, come ho fatto io, si cerca di studiare relativamente ai costi, al tipo distanza, e stabilito che esiste un modo ottimale di trasporto, si cerca di capire se c’è sempre una strutture geometrica comune, cioè caratterizzante questi modi di trasporto. Il trasporto ottimo è uno dei campi di ricerca del vincitore della medaglia Fields Alessio Figalli.

Come si concilia questo lavoro con la vita privata?

E’ un po’ difficile la vita del ricercatore universitario, perché oltre a cambiare città e quindi amici e conoscenze ogni paio d’anni c’è il cosiddetto problema dei due corpi, ovvero il problema della coppia - che però non ha una soluzione nota come quello di meccanica classica! - Se non si è stabili si mantengono relazioni a distanza. Se si ha invece una buona posizione e la prospettiva di essere poi confermati dopo 3 anni di ricerca, con la possibilità di diventare professori e quindi avere stabilità su un certo territorio, si può più serenamente progettare di avere una famiglia. C’è chi osa anche prima di essersi stabilizzato. Il mio ragazzo sta ancora Berlino, ha studiato in Italia, ha cittadinanza tedesca, ma è di origine albanese. Spero che mi raggiunga presto, ma nel frattempo ci vediamo spesso e, visto che siamo giramondo, i lunghi viaggi non mi pesano. Certo se ci fossero figli sarebbe più complicato. Il motivo per cui poche donne facciano matematica a livelli alti secondo me risiede nel fatto che la carriera si stabilizza molto tardi, dai 34-35 in poi, e molte non si sentono di rimandare così tardi aspetti che sono anche importanti nella vita. Non mi sembra ci sia, almeno nel mio campo, una discriminazione, è proprio la carriera universitaria che è anti-famiglia purtroppo. All’Università italiana, quando studiavo, c’era un alto numero di donne tra il personale docente, solo che poi è stata fatta la riforma che ha tolto la figura del ricercatore a tempo indeterminato, per cui le nuove posizioni del ricercatore sono più vicine a quelle di professore associato, per cui si ottengono più tardi e non si viene stabilizzati presto, come succedeva prima; inoltre c’è stato il blocco del turn over: per diversi anni ogni cinque professori in pensione ne assumevano uno. Questo secondo me quindi è il fattore principale che influisce sul numero delle ragazze che tentano la carriera accademica: poche.

Lei è un “cervello di ritorno” per fortuna.

Sì, ho studiato all’Università a Pavia, ho fatto il dottorato a Trieste alla SISSA, poi un anno ancora a Pavia, poi due anni all’Università di Zurigo, poi Università di Lipsia in Germania e all’Università di Erlangen. In Germania, dove non esistono ricercatori ma solo professori, sono stata Junior Professor per tre anni. Lì le donne erano quasi zero, eravamo pochissime. In Germania si arriva magari a 40 anni ad avere una posizione e ce ne sono poche da professore. Mentre il professore italiano deve gestirsi tutto, lì ci sono tanti assistenti, Post Doc eccetera, quindi meno professori a tempo indeterminato, ma sempre tante persone che li aiutano grazie ai fondi pubblici. Quindi meno figure a tempo indeterminato e tra questi poche donne, anche se ultimamente si sta cercando di aumentarne il numero con l’imposizione di una certa percentuale minima all’interno delle Università.

Quindi dopo i 6 anni in Germania ha preferito tornare e andare al GSSI?

Dopo i 6 anni ho deciso di tornare perché il posto qui è ottimo. La cosa buona dell’Italia è che se capita in un posto così d’eccellenza c’è tanta voglia di collaborare e i gruppi sono meno chiusi. Il Gran Sasso è molto stimolante, tiene corsi avanzati ed è internazionale e paritario. Mi auguro nasceranno collaborazioni, ho ricevuto numerose proposte e sono aperta a imparare cose nuove, che è una delle cose più belle che ci siano. Spero di portare il mio contributo.

Medea Garrone

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