- 06 settembre 2018, 15:31

"L'uomo deve emanciparsi dalla dimensione del proprio torace": parola d'antropologo

L'antropologo genovese Davide Ticchi, ricercatore in Estonia, è specializzato negli studi di genere, in particolare quelli sul torace maschile e sul rapporto che gli adolescenti maschi hanno con le malformazioni fisiche legate al petto

Una volta tanto non si parla di taglia di reggiseno o protesi in silicone, ma di torace. Nello specifico delle dimensioni della cassa toracica maschile. Perché pochi ne parlano e pochissimi lo sanno, ma gli stereotipi di genere esistono anche per gli uomini e sembra che tutto sia giocato sul filo dei centimetri. Quelli dei pettorali, non altri. Insomma, secondo gli studi antropologici ciò che conta davvero agli occhi delle donne, socialmente parlando, è quella la misura che conta. Ed ecco che quindi il maschio soffre del Complesso di Adone e non è ancora riuscito a liberarsi da questo condizionamento, di cui ha poca consapevolezza. Parafrasando, dovrebbero dire “il petto è mio è me lo gestisco io”. Ma se poi i pettorali presentano anche una anomalia, per esempio una patologia toracica come il Pectus Excavatum e Carinatum o la Sindrome di Poland, tutto si complica. Perfino se si vuole partecipare al Gay Pride, dove ogni diversità è accolta a braccia aperte. A spiegarne i motivi è uno studioso di genere, il giovane ricercatore genovese Davide Ticchi, che fa l’antropologo a Tallinn, in Estonia, dove studia anche gli effetti psicologi che le malformazioni toraciche possono avere su bambini e adolescenti (1 persona ogni 300/400 nati soffre di Pectus Excavatum, la patologia detta “sterno del calzolaio”, che vede lo sterno rientrare). Da questi studi è nata la comparazione del ricercatore tra l’approccio italiano, i particolar modo con i casi dell’Ospedale Gaslini di Genova, e quello estone.

Come sei arrivato all’Università di Tallinn?

Nel 2012, dopo la Laurea breve in Scienze geografiche e culturali, ho fatto il colloquio il per corso di studi magistrali in Antropologia all’Università di Tallinn, perché ho trovato lì la possibilità di applicare quello che è il nostro background: in Italia l’approccio è molto solido e teorico, ma meno pratico. A Tallin ho trovato la coerenza tra i due aspetti e la possibilità di fare studi comparativi.

Ti occupi dello studio di genere: perché i maschi soffrono del Complesso di Adone?

Pensa a tutti i metodi che esistono oggi per trasformare il fisico, e pensa, per esempio, alle dating app, in cui il corpo maschile è esposto come conferma del fatto che oltre a esserci verosimiglianza col profilo utente, c’è una soddisfazione dell’aspettativa della donna rispetto al corpo che andrà a conoscere intimamente. Pensa ai video motivazionali per la body transformation. Un motivatore molto famoso è Connor Murphy, che ha tanti follower su Instagram, fa video, scrive libri per il cambiamento del corpo e tutto in ottica giovanile: il corpo dell’adolescente mingherlino, inizialmente non considerato dalle ragazze, si prende la rivincita grazie ai muscoli.

Più muscoli hai e più like ricevi e più sei accettato socialmente?

Nelle persone che decidono di cambiare il proprio fisico e che per questo sono apprezzate tramite i like sui social, alla realizzazione, però, può seguire la frustrazione di non essere, in realtà, liberi di esser quel che sono. Perché si sentono obbligati ad avere sempre nuovi traguardi, perché un muscolo non è mai abbastanza sviluppato. Questo condizionamento inizia già a 6 anni, con gli action man: i bambini percepiscono quel fisico come migliore e più attraente di altri corpi, come magari è quello del genitore.

Quindi i maschi non sanno emanciparsi da questi stereotipi?

Rispetto alla maggiore accentuazione del discorso femminista che ha giustamente rivendicato i propri successi nella parificazione sociale a dispetto delle misure e delle caratteristiche fisiche, l’uomo non trovandosi nella condizione per cui il torace, come i muscoli, sono dichiarati come qualcosa su cui può decidere, tende a non porre resistenza ai modelli, introiettandoli nel tempo.

Perché anche nei Gay Pride diventa difficile per alcuni esporre il proprio corpo?

Perché anche lì il torace è messo molto in evidenza, come la muscolatura, e quindi chi ha un petto diverso tende a non farne parte e a isolarsi. Nonostante il Gay Pride sia modello di partecipazione di corpi diversi e inglobi tante differenze, per cui le persone non si sentono stigmatizzate né giudicate per la loro diversità, questo non accade per chi soffre di malformazioni toraciche come il Pectus.

In particolare come studi nel tuo settore le malformazioni toraciche?

Dopo la Laurea ho proseguito con il Dottorato, che sto terminando occupandomi di un argomento consono al mio vissuto, perché l’antropologia si basa fortemente anche sull’esperienza personale. Dal momento che da adolescente ho sofferto di Pectus Excavatum, so come si può sentire un ragazzo e come scientificamente e psicologicamente si affronti il problema. In questo modo lo studio comparato, tra sistema italiano ed Estone, riguarda la mancanza di un’assistenza per ragazzi in età pediatrica con malformazioni toraciche. Ho conosciuto il chirurgo ortopedico a Tallinn e il suo omologo a Genova, all’Ospedale Gaslini, e so che questi ragazzi col torace malformato non hanno altra possibilità se non l’intervento chirurgico. Laddove non c’è la possibilità di essere operati, non ci sono counseling o alternative di supporto per loro, come invece avviene per altre patologie o dipendenze.

Come sono viste le malformazioni toraciche?

Oggi si vede soprattutto nella raffigurazione del torace maschile lo standard ideale di garanzia di successo e bellezza. Questo è accreditato dalle circostanze della nostra vita socio-culturale, e veicolato dai media e dall’interazione uomo-donna e genitori-figli. Quindi l’aspetto del torace maschile come forma standard di bellezza fa sì che l’uomo viva ancora una forma di subordinazione rispetto al giudizio della donna, che può giudicare negativamente e stigmatizzare un torace malformato. E anche i ragazzi lo fanno, specialmente quando si trovano in posti come gli spogliatoi o al mare, condizionando la propria vita.

C’è differenza tra adolescenti estoni e italiani nell’affrontare le patologie toraciche?

Là sono più abituati, per esempio frequentando molto la sauna, a vedere l’individuo nudo per come è e ad accettarne la forma; inoltre, essendo più longilinei e con ossatura più evidente che in Italia, ci fanno meno caso. Diverso è il ruolo della componente famigliare: i genitori italiani sono più presenti, anche in ospedale, durante l’esperienza operatoria, mentre gli estoni non lo sono. E gli italiani tendono a pronunciarsi maggiormente sul processo di trasformazione dei figli, non solo in caso di operazione, ma in caso, per esempio, di cambio di look, il che implica un giudizio morale. Questo non avviene in Estonia: se il figlio cambia il colore dei capelli o si mette un percing, magari lo fanno anche i genitori.

Come antropologo cosa rilevi maggiormente nei ragazzi con patologie toraciche?

Cerco di mettere in evidenza la realtà di queste persone e le difficoltà che possono avere nella dimensione famigliare e con i pari, cioè nella dimensione dove possono vivere l’esclusione per lo stigma. Le condizioni più frequenti sono quelle che possono portare a sviluppo malesseri tali da condurre anche al suicidio e all’autoesclusione per via della diversità che il corpo manifesta. E il senso di esclusione può esserci anche dopo l’intervento, perché vivendo con una protesi correttiva nel corpo, si possono verificare casi in cui la persona abbandona la scuola o gli ambienti affollati e i movimenti fisici che possano compromettere questa trasformazione e normalizzazione del corpo. Negli ultimi decenni c’è stata un grande progresso della chirurgia mininvasiva, ma poco della messa in luce del lato esperienziale. La malformazione toracica costringe l’uomo ad aprirsi e affrontare il tema, poi sta a noi scienziati, ai trainer e a tutte le persone comuni, affrontare il tema di come il corpo maschile debba essere vissuto in modo più libero al di là dei parametri. A Genova, a questo proposito, quello che faccio è sensibilizzare sul tema e fare incontri con l’associazione PectuSmile.

Medea Garrone