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| 22 agosto 2018, 15:23

Crollo ponte, ingegnere avverte: “Occhio a conclusioni affrettate”

La genovese Emanuela Cantoni: “La causa del collasso è ancora scientificamente da stabilire. Il Morandi costruito con tecniche avveniristiche per l’epoca. Ma ora non demonizziamo il cemento armato precompresso e non creiamo inutili allarmismi”

Crollo ponte, ingegnere avverte: “Occhio a conclusioni affrettate”

Anche Messina visse il crollo di un ponte costruito dall’ingegner Morandi. Pur con molta meno tragicità rispetto a quanto successo a Genova alla vigilia di Ferragosto.

La notizia è stata pubblicata nei giorni scorsi da un quotidiano in Sicilia. I giornalisti sono andati a ripescare negli archivi del 1999. Diciannove anni fa.

In una giornata di aprile, il 23 per l’esattezza, la struttura lunga 78 metri e alta 18, denominata Santo Stefano e collocata lungo la statale 114, nei pressi dell’abitato di Santa Margherita, collassò su se stessa. Per un autentico miracolo, in quel momento, per quanto il viadotto fosse sempre molto trafficato, nessuno si trovava sopra. E non ci furono vittime.

Per questo il caso ebbe un minore impatto mediatico e, probabilmente, una minore presa di coscienza generale, rispetto alla sciagura immane del ponte sul Polcevera (43 morti il bilancio finale).
Il ‘Santo Stefano’ era stato inaugurato nel 1956. A conti fatti, ‘visse’ 43 anni. Ancora meno rispetto al Morandi, che è arrivato a 51. E che, oltre al progettista, condivideva con il ponte messinese anche il materiale: il cemento armato precompresso.

E’ una semplice analogia, sia chiaro. Ma non dev’essere un allarme. Molti viadotti in Italia sono stati realizzati con lo stesso materiale, a fronte di tecniche anche differenti. Eppure non significa che tutti siano a rischio crollo.

A precisare la questione, dal punto di vista tecnico e scientifico, è la genovese Emanuela Cantoni, ingegnere civile, attiva presso uno dei principali studi della città specializzati in progettazione strutturale e geotecnica per nuove costruzioni e ristrutturazioni edilizie.

“In questi giorni - afferma - ho letto tutto e il contrario di tutto. Si è parlato di cedimento strutturale, di fulmini, di materiali deteriorati. Si sono fatte mille ipotesi, mille tentativi di dare una spiegazione. Io resto convinta che una causa certa e scientificamente dimostrata sul crollo del Ponte Morandi ancora non ci sia. E’ uno scenario tutto da chiarire e nessuno al momento può avere un’idea precisa. Per il resto, invece, dico di stare attenti alle informazioni che si danno. Soprattutto, non va demonizzato l’utilizzo del cemento armato precompresso perché, pur insieme ad altri materiali, è stato importante per la realizzazione di strutture di grandi dimensioni come ponti e viadotti autostradali”.

Secondo Cantoni, “non si può fare di tutta un’erba un fascio. Come noto, il calcestruzzo resiste solamente alla compressione, ma non alla trazione. Per questo, al suo interno, vengono inseriti degli elementi in ferro. Così si crea il cemento armato. Il cemento armato precompresso è un’ulteriore evoluzione: perché consente di portare al limite la resistenza alle trazioni. E si usava normalmente in caso di campate molto lunghe. La costruzione del Ponte Morandi, realizzata per intero con questo materiale, risale agli anni Sessanta. All’epoca fu molto sperimentale e avveniristica. Costruire degli stralli in precompresso è una cosa che oggi non si fa assolutamente più”.

L’ingegnere genovese spiega: “Gli stralli sono strutture snelle e lunghe. Non si può e non si poteva insistere molto sulla precompressione, perché si sarebbero spezzati. Così, rispetto alle sollecitazioni del ponte, è plausibile che ci sia stata, negli anni, una perdita di precompressione. E che la struttura sia diventata meno resistente alle trazioni. Infatti, in una pila gli stralli erano già stati sostituiti con quelli in acciaio, e nelle altre due pile si sarebbe dovuti intervenire a breve”.

Questo tipo d’intervento, fatto per tempo, avrebbe probabilmente permesso di ‘salvare’ il Morandi, così com’è stato fatto con il suo ‘gemello’ in Venezuela. “Oggi una costruzione per intero in precompresso è anacronistica, se si tratta di un ponte. Ma è ancora molto utilizzata, per esempio, per travi e solai, dove il carico è perpendicolare rispetto alla costruzione. Per i ponti, si usa la formula precompresso più acciaio, oppure interamente in acciaio. Quest’ultima, ipotizzata per il nuovo ponte sul Polcevera, è la tecnica più veloce, visto che il calcestruzzo necessita di tempi di ‘riposo’ di almeno un mese”.

Velocità sì, ma anche piena sicurezza. Un concetto dal quale non si può derogare. Non servirebbe a nulla un nuovo ponte fatto in fretta e furia. Pensiero sacrosanto e più volte ribadito, tra gli altri, da sindaco e presidente della Regione. Per questo, forse, sarebbe d’uopo una maggiore prudenza sui tempi. Tanto più che siamo in Italia: il paese dei ricorsi e della burocrazia. 

Alberto Bruzzone

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