Sempre più spesso i social network diventano protagonisti nelle aule giudiziarie.
Se nella maggior parte dei casi i problemi riguardano il contenuto dei messaggi pubblicati – ingiuriosi, diffamanti, se non addirittura calunniosi – talvolta a rilevare è invece il tempo trascorso dall'utente su internet, specie in quei momenti in cui ci aspetterebbe dallo stesso lo svolgimento di un'altra attività.
Caso emblematico è quello di coloro che accedono al proprio profilo-social durante le ore di lavoro, ipotesi piuttosto frequente se si considera che il 22% della popolazione mondiale utilizza Facebook e che il 76% degli utenti vi si collega almeno una volta al giorno.
Stando così la situazione, sarà sicuramente utile sapere che secondo le più recenti sentenze, l'accesso ai social network durante l'orario di lavoro può costituire giusta causa di licenziamento.
In tal senso si sono pronunciati numerosi Tribunali del Nord Italia, quali quello di Milano e di Torino, i quali hanno ravvisato nella condotta del lavoratore-utente una grave violazione del dovere di correttezza, legalità e civile convivenza, tale da giustificare la sanzione del licenziamento.
Al riguardo, un caso interessante è approdato addirittura in Cassazione.
In quella situazione la problematica maggiore riguardava la condotta del datore di lavoro il quale, sospettando che un dipendente tralasciasse di svolgere le proprie mansioni per dedicarsi al proprio profilo Facebook – con evidente danno alla produzione – aveva creato un account falso al fine di trovare conferma ai propri sospetti.
Dal canto suo, il dipendente indagato era caduto nella trappola preparatagli dal datore di lavoro, ed aveva iniziato a scambiare messaggi con il nuovo contatto, anche durante l'orario di lavoro.
A questo punto era scattato il licenziamento che, subito impugnato dal dipendente, in un primo tempo era stato dichiarato illegittimo dal Tribunale di Lanciano.
Il Giudice di primo grado aveva infatti ritenuto che i controlli occulti e l'"agguato virtuale" realizzati dal datore di lavoro fossero illegittimi, in quanto lesivi della dignità e della riservatezza del lavoratore.
Tale pronuncia è stata tuttavia ribaltata dalla Corte d'Appello dell'Aquila e, successivamente, dalla Corte di Cassazione, le quali hanno accertato e dichiarato la validità del licenziamento.
I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti chiarito una volta per tutte i limiti entro i quali possono essere effettuati i controlli sull'operato dei dipendenti: se devono considerarsi illeciti – e pertanto vietati – quelli preventivi, ovvero diretti a verificare il puntuale svolgimento dell'attività lavorativa, sono invece del tutto legittimi quei controlli che mirano a tutelare beni del patrimonio aziendale, oppure ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti.
Nel caso di specie, la creazione dell'account falso era diretto a porre fine ad una condotta che stava mettendo a rischio il regolare funzionamento e la sicurezza dell’impianto al quale il lavoratore era addetto: obiettivi che, secondo la Cassazione, prevalgono sul diritto del lavoratore alla riservatezza e non costituiscono pertanto una violazione della sua dignità personale e lavorativa.
Da questa sentenza – confermata negli ultimi anni da altre pronunce analoghe – può trarsi il principio secondo cui i controlli aziendali "occulti" devono considerarsi ammissibili, purché gli stessi siano diretti ad accertare comportamenti illeciti, e ferma restando la necessità che tali accertamenti vengano effettuati mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle inviolabili garanzie di libertà e dignità dei dipendenti e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.