Ci vuole un provvedimento della Regione per interdire alle persone dal volto travisato, che sia da burqa, velo o sciarpa, l'ingresso negli uffici pubblici. Qualcosa che disturba qualche frangia ligure, mentre in Paesi islamici stessi - come il Marocco - il governo vieta la commercializzazione dei vestitoni integrali per frenare il radicalismo salafista. Toti questa volta ha intepretato un principio e sentimento di laicità ampiamente condiviso: "Il burqa è il peggior simbolo della sottomissione della donna all’uomo e la vigilia dell’8 marzo ci sembrava un buon giorno per dire che chi vive in Italia almeno le minime regole di uguaglianza tra uomo e donna le deve saper cogliere e rispettare".
Lo storico e sociologo Jean Bauérot, interpretando i conflitti sociali e religiosi di questi tempi (la Francia ne è il cono vulcanico), ha spiegato che "neutralità dello Stato" non significa costringere i praticanti a relegare la propria confessione alla sfera privata. In una società multiculturale ideale, tutti rispettano le pratiche dell'altro pacificamente. Non sempre però questo succede nella realtà; ecco perché il principio della maggioranza diventa la regola per dirimere le questioni più spinose. Soprattutto quando l'incrocio tra la tradizione coltivata in privato e le regole del pubblico può diventare dirompente.
Negli ospedali e negli uffici pubblici italiani, e chiaramente liguri, la maggior parte dei cittadini non penserebbero mai di indossare burqa, niqab, passamontagna, caschi integrali o qualsiasi altro indumento in grado di coprire integralmente il viso. Tollerare l'ingresso di persone coperte o camuffate in un luogo pubblico non è questione di tolleranza, rispetto o equidistanza. Sarebbe semplicemente abdicare al buon senso. Un buon senso guadagnato in secoli di storia e baruffe, anche atroci, che nessuno vuole né rievocare né tanto meno rivivere.