Attualità - 24 marzo 2016, 07:22

Monsignor Lupi: "Contrastare il male nel mondo con la nostra vita"

All’inizio della Messa Crismale il Vescovo ha ricordato i tragici fatti di Bruxelles, poi un pensiero per le vittime degli attentati e per le giovani studentesse scomparse nell’incidente in Spagna.

“Dobbiamo contrastare il male che c’è nel mondo con la nostra vita e la nostra testimonianza di cristiani”. Con queste parole, quasi un appello alla responsabilità dei fedeli di fronte a questi gravi atti di violenza, il vescovo Vittorio Lupi ha aperto la Messa Crismale del mercoledì Santo. Il presule ha poi rivolto un pensiero alla vittime degli attentati nella capitale belga e alle giovani studentesse tragicamente scomparse nell’incidente stradale in Spagna. Alla celebrazione, che si sta concludendo in questi minuti in una gremita Cattedrale dell’Assunta, ha partecipato come sempre una folla molto numerosa, proveniente da tutte le comunità della diocesi. E da tutta la diocesi provenivano ovviamente anche i sacerdoti riuniti per celebrare assieme al vescovo Lupi questo momento importante dell’anno liturgico. A sottolineare ulteriormente questo momento d’unione, altre due vive testimonianze della nostra Chiesa significativamente poste ai lati del presbiterio: da una parte (presso l’altare della Misericordia) il gruppo composto da cantori di varie realtà corali delle diverse parrocchie (tre realtà di Savona e poi Cogoleto, Celle, Finale, Gameragna, Valleggia …) che, diretto da padre Piergiorgio Ladone, ha animato la liturgia; dall’altra (presso l’altare delle Anime), i numerosi rappresentanti delle confraternite diocesane che hanno come di consueto presenziato in cappa proprio di fronte al coro. Davanti a queste centinaia di fedeli – numerose persone hanno dovuto rimanere in piedi – e di fronte a tutto il clero, riunito per la rituale benedizione e consacrazione degli oli, il vescovo ha ricordato il perché di questo radunarsi in Duomo: “Siamo qui a testimoniare l’unità della diocesi in primo luogo attraverso l’Eucarestia poi con gli olii che saranno consacrati e che saranno poi utilizzati nelle diverse parrocchie”. Non casuale la presenza di numerosi cresimandi, ragazzi ai quali il vescovo ha rivolto un particolare saluto: “La cresima vi farà cristiani adulti, stasera farete un’esperienza nuova, forse la celebrazione vi sembrerà un po’ lunga, ma qui è riunita la comunità di cui presto farete parte da protagonisti”.

E proprio l’unità della comunità cristiana e in particolare dei presbiteri è stata al centro dell’omelia pronunciata dopo le letture dal vescovo Lupi: “L’unità è la realtà più difficile da costruire, ed è quella che più di tutte realizza il Regno di Dio qui sulla terra, proprio per questo Gesù la mette al primo posto nella sua preghiera per noi. Ci troviamo in un clima di famiglia e vogliamo sentirci uniti a coloro che non possono essere tra noi questa sera, ma che fanno ugualmente parte di questa grande famiglia che è la nostra chiesa locale. Teniamo presenti in modo particolare i Presbiteri defunti di quest’ultimo periodo e che, partecipando alla liturgia celeste, sono uniti a noi questa sera: monsignor Leonardo Botta, don Luigi Pampararo, don Giuseppe Rebagliati. Sono spiritualmente presenti a questa celebrazione anche i Presbiteri ammalati e impossibilitati a partecipare: don Osvaldo Dettoni, don Ernesto Bottero, don Antonio Giusto, don Antonio Elena e il sacerdote missionario a Cuba don Michele Farina”.

“La Messa crismale ci ricorda la natura sacerdotale dell’intero popolo di Dio, le letture di questa sera ci aiutano a comprendere bene questa realtà di un’assemblea regale, un popolo sacerdotale, gente santa, stirpe benedetta dal Signore; in esse vengono contemplate due grandezze: da una parte quella del profeta, dell’inviato, dell’evangelizzatore, che, nel brano evangelico è Cristo, che annuncia efficacemente la liberazione; dall’altra, il popolo degli oppressi che vengono chiamati a libertà – ha proseguito ancora monsignor Lupi – questa chiamata, come ha affermato ripetutamente il Concilio Vaticano II, non ci tocca solo isolatamente, ma fa di noi un corpo sacerdotale che nelle singole chiese locali assume la forma del presbiterio attorno al vescovo. A queste affermazioni fa eco una frase dell’enciclica Presbiterorum Ordinis che recita: “nessun presbitero è in condizione di realizzare a fondo la propria missione, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa”. Direi che l’unità tra i presbiteri è fondamentale per l’unità della chiesa. I pastori, che sono chiamati dal Signore per promuovere l’unità dei carismi presenti nella chiesa, possono farlo solo se hanno sperimentato, vissuto, sofferto l’impegno per l’unità all’interno del presbiterio. Solo in quel modo avranno la capacità, la forza, l’esperienza per favorire l’unità nella loro comunità e nella chiesa. L’unità della Chiesa locale si forma anzitutto nell’Eucaristia, e particolarmente in questa Eucaristia celebrata dal presbiterio col suo vescovo e i fedeli, in comunione con tutta la Chiesa e tradotta in un atteggiamento di carità pastorale che esprima l’ansia che viene dallo Spirito di mettersi corpo e anima a disposizione dei fratelli. Questa carità pastorale è impegno di tutto il popolo di Dio, tutti sono chiamati ad essere responsabili della missione che Gesù ha lasciato alla chiesa, ma per noi presbiteri assume una caratteristica particolare. Amare per noi sacerdoti vuol dire amare nella realtà del nostro essere preti, cioè con quella caratteristica propria del nostro ministero che è la forma tipica di amare con il fine di dare ai fratelli il dono più grande, che non è la salute, non è il benessere fisico, o economico, non la realizzazione professionale, o il successo, o altre realtà umane, ma dare la vicinanza, la vita, il perdono, la gioia del Signore, dare loro il Regno; con la parola e con i sacramenti far sì che il Signore entri nella vita di ognuno”.

“La carità pastorale non è qualcosa che s’improvvisa nella vita del presbitero o una conquista che si raggiunge una volta per sempre – ha rimarcato il Vescovo esortando poi i sacerdoti a mantenere saldi i principi della propria missione pastorale – noi presbiteri siamo, ovviamente, immersi nella società, nella cultura del nostro tempo, e siamo facilmente esposti ad assorbire la mentalità corrente e alla tentazione di pensare il nostro sacerdozio e vivere il ministero e la nostra vita in maniera funzionale. Una vita intesa secondo i parametri dell’efficientismo, un’esistenza stressata dai vari impegni, la tentazione di dare importanza all’esteriorità, al successo, intanto ciò che conta, è quello che appare, quello che fa notizia, quello che si vede e l’essere visti”. “La carità pastorale si esprime attraverso l’obbedienza quotidiana a quello che il Signore ci prospetta ogni giorno. Amare è sapersi adattare a tutte le situazioni in cui veniamo a trovarci: il brutto tempo, il ragazzo che ti fa perdere la pazienza, la persona che viene a disturbarti mentre lavori, perché ha bisogno di essere ascoltata, oppure anche il non essere capito, ascoltato … dalle persone che ti stanno attorno, o anche dai superiori – ha rimarcato il presule – la carità pastorale è quindi un amore che si vive nel proprio ministero quotidiano e conduce non dove vogliamo noi, ma dove siamo mandati”. Infine un appello per nuove vocazioni: “Abbiamo bisogno di sacerdoti santi per le nostre comunità … mi rivolgo ai giovani tra i quali sicuramente qualcuno è chiamato ad offrire la propria vita al Signore per una causa che non è umana, ma divina, una causa per la quale il Signore ha promesso il centuplo in questa vita e la vita eterna. E il Signore mantiene le sue promesse”.

TESTO INTERGRALE DELL’OMELIA

La nostra Chiesa locale, in sintonia con tutte le altre chiese locali nel mondo si ritrova questa sera, come ogni anno, per celebrare quell’unità che Gesù ha fortemente voluta sempre, ma in particolare in quell’ultima sera in cui sapeva di dover lasciare i suoi discepoli.

Li aveva scelti Lui stesso e li amava di un amore tenerissimo; nel momento in cui deve lasciarli offre la sua preghiera al Padre affinché possano essere sempre in unità con Lui e col Padre, ma anche tra di loro. L’unità che regna all’interno della vita trinitaria deve essere il modello su cui viene fondata la vita della Chiesa e gli apostoli sono i primi che devono realizzarla. Anche noi tutti, sacerdoti e fedeli, siamo stati scelti da Lui, lo stesso amore che aveva per i discepoli Gesù lo ha per noi, chiamati per portare al mondo il suo messaggio. Anche per noi Egli dona la sua vita, anche per noi rivolge la sua preghiera al Padre affinché siamo uniti in Lui, col Padre, nello Spirito, e tra di noi: un’unità da portare al mondo, cui poterci offrire come modello, con molta umiltà, ma con l’impegno a testimoniare con i fatti il nostro amore e il nostro essere uniti.

L’unità è la realtà più difficile da costruire, ed è quella che più di tutte realizza il Regno di Dio qui sulla terra, proprio per questo Gesù la mette al primo posto nella sua preghiera per noi. Ci troviamo in un clima di famiglia e vogliamo sentirci uniti a coloro che non possono essere tra noi questa sera, ma che fanno ugualmente parte di questa grande famiglia che è la nostra chiesa locale. Teniamo presenti in modo particolare i Presbiteri defunti di quest’ultimo periodo e che, partecipando alla liturgia celeste, sono uniti a noi questa sera: Monsignor Leonardo Botta, Don Luigi Pampararo, Don Giuseppe Rebagliati. Sono spiritualmente presenti a questa celebrazione anche i Presbiteri ammalati e impossibilitati a partecipare: Don Osvaldo Dettoni, don Ernesto Bottero e don Antonio Giusto, don Antonio Elena e il sacerdote missionario a Cuba: Don Michele Farina.

La Messa crismale ci ricorda la natura sacerdotale dell’intero popolo di Dio, le letture di questa sera ci aiutano a comprendere bene questa realtà di un’assemblea regale, un popolo sacerdotale, gente santa, stirpe benedetta dal Signore; in esse vengono contemplate due grandezze: da una parte quella del profeta, dell’inviato, dell’evangelizzatore, che, nel brano evangelico è Cristo, che annuncia efficacemente la liberazione; dall’altra, il popolo degli oppressi che vengono chiamati a libertà e fatti, come dice Isaia, sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio, sacerdoti per il Dio e Padre di Cristo Gesù. È questa stirpe eletta, questo popolo di sacerdoti, questa nazione santa che va anzitutto collocata al centro della nostra attenzione, se vogliamo situare in maniera corretta “il presbiterio” in questa celebrazione che ha una accentuazione particolare per coloro che sono stati chiamati a donare la vita “per stare con Lui e per essere inviati”. Per loro infatti è contemplato in questa celebrazione il rinnovo delle promesse sacerdotali.

Se, come dice San Paolo è Lui, il Cristo che ha donato apostoli ed evangelisti,  profeti e pastori, lo ha fatto non per creare un corpo a sé stante di privilegiati, ma per costituire il ministero di coloro che, uniti dallo Spirito Santo e posti a reggere quella Chiesa che Dio acquistò a prezzo del sangue del suo Figlio, costituiscono il corpo dei successori degli apostoli e dei pastori che si pongono in stato di servizio per la crescita del popolo di Dio.

La Parola di Dio, come sempre, ci offre luce e guida per la nostra vita.

Dove ci collochiamo, dunque nel quadro richiamato dalle tre letture, che presenta da un lato la generazione degli inviati, dall’altro la generazione dei poveri, degli oppressi, dei salvati? Anzitutto ci sentiamo dalla parte del popolo salvato e redento, che canta le meraviglie di colui che ci ha liberato dai nostri peccati con il suo sangue, ma allo stesso tempo ci sentiamo, per una grazia immeritata, coinvolti nell’azione del  sommo sacerdote della Nuova Alleanza, chiamati a condividere, in forza dell’imposizione delle mani, la sua missione di liberare gli uomini dalla schiavitù del peccato. Ora questa chiamata, come ha affermato ripetutamente il Concilio Vaticano II, non ci tocca solo isolatamente, ma fa di noi un corpo sacerdotale che nelle singole chiese locali assume la forma del presbiterio attorno al vescovo. A queste affermazioni fa eco una frase dell’enciclica Presbiterorum Ordinis che recita: “nessun presbitero è in condizione di realizzare a fondo la propria missione, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa”. Direi che l’unità tra i presbiteri è fondamentale per l’unità della chiesa. I pastori, che sono chiamati dal Signore per promuovere l’unità dei carismi presenti nella chiesa, possono farlo solo se hanno sperimentato, vissuto, sofferto l’impegno per l’unità all’interno del presbiterio. Solo in quel modo avranno la capacità, la forza, l’esperienza per favorire l’unità nella loro comunità e nella chiesa.

L’unità della Chiesa locale si forma anzitutto nell’Eucaristia, e particolarmente in questa Eucaristia celebrata dal presbiterio col suo vescovo e i fedeli, in comunione con tutta la Chiesa e tradotta in un atteggiamento di carità pastorale che esprima l’ansia che viene dallo Spirito di mettersi corpo e anima a disposizione dei fratelli. Questa carità pastorale è impegno di tutto il popolo di Dio, tutti sono chiamati ad essere responsabili della missione che Gesù ha lasciato alla chiesa, ma per noi presbiteri assume una caratteristica particolare.

Amare per noi sacerdoti vuol dire amare nella realtà del nostro essere preti, cioè con quella caratteristica propria del nostro ministero che è la forma tipica di amare con il fine di dare ai fratelli il dono più grande, che non è la salute, non è il benessere fisico, o economico, non la realizzazione professionale, o il successo, o altre realtà umane, ma dare la vicinanza, la vita, il perdono, la gioia del Signore, dare loro il Regno; con la parola e con i sacramenti far sì che il Signore entri nella vita di ognuno. La carità pastorale è una forma specifica d’amore, se preferite un modo particolare d’amare che nel sacerdote ordinato assume una caratteristica particolare. Si tratta di un dono di sé che si radica, nella realtà sacramentale in cui il presbitero viene costituito nel momento dell’ordinazione. Quindi ogni gesto, ogni parola del presbitero devono essere segnati da questa carità pastorale, in modo tale che egli giunga al dono totale di sé, andando oltre la dedizione di quanti anche con grande generosità s’impegnano nella loro attività lavorativa o nella professione. Mi pare che la “carità pastorale sia ben definita nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «... come Dio ci ha trovati degni di affidarci il vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori ...  siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Tess. 2, 4-8).

Non si può evangelizzare con il cuore attaccato a tante altre cose. Usare molto la parola «evangelizzazione» non significa che in realtà si evangelizzi. Il cuore dell'apostolo comunica il vangelo quando lo ha vissuto con intensità. E’ un modo per vivere la nostra castità, che non consiste solo nel non avere moglie o nel non fare uso della genitalità, ma significa avere un cuore grande come quello di Cristo, nel quale ogni persona trova posto; un cuore che ama le persone.

La carità pastorale non è qualcosa che s’improvvisa nella vita del presbitero o una conquista che si raggiunge una volta per sempre; piuttosto è qualcosa che inerendo allo stato sacerdotale è destinata a non venir meno neanche quando, per motivi di salute o età, si viene sollevati - per il bene proprio e della comunità a cui fino ad allora si è servito - da determinati incarichi pastorali; potrà mutare il modo d’esercitarla, ma non la sostanza. Noi presbiteri siamo, ovviamente, immersi nella società, nella cultura del nostro tempo, e siamo facilmente esposti ad assorbire la mentalità corrente e alla tentazione di pensare il nostro sacerdozio e vivere il ministero e la nostra vita in maniera funzionale.

Una vita intesa secondo i parametri dell’efficientismo, un’esistenza stressata dai vari impegni, la tentazione di dare importanza all’esteriorità, al successo, intanto ciò che conta, è quello che appare, quello che fa notizia, quello che si vede e l’essere visti. Il “Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri” al n. 44, a questo proposito dice: «La carità pastorale corre, oggi soprattutto, il pericolo d’essere svuotata del suo significato dal cosiddetto funzionalismo. Non è raro, infatti, percepire, anche in alcuni sacerdoti, l’influsso di una mentalità che tende erroneamente a ridurre il sacerdozio ministeriale ai soli aspetti funzionali. ‘Fare’ il prete, svolgere singoli servizi e garantire alcune prestazioni d’opera sarebbe il tutto dell’esistenza sacerdotale. Tale concezione riduttiva dell’identità e del ministero sacerdotale, rischia di spingere la vita di questi verso un vuoto, che viene spesso riempito da forme di vita non consone al proprio ministero. Il sacerdote che sa d’essere ministro di Cristo e della sua Sposa, la Chiesa, troverà nella preghiera, nello studio e nella lettura spirituale la forza necessaria per vincere anche questo pericolo».

Un padre, una madre amano il figlio in forza della loro paternità e maternità, in quanto appunto sono padre e madre e perché quel bambino è loro figlio; essi lo amano non perché egli si merita il loro amore e se anche il figlio si meritasse il loro amore, il padre e la madre lo amerebbero a prescindere da questo suo merito e dalle sue doti. Io lo amo - sarebbe la risposta di quel papà e di quella mamma - perché sono suo padre, perché sono sua madre; lo amo perché è mio figlio; anzi più un figlio è fragile e in difficoltà più i genitori, proprio per questa fragilità o per le sue difficoltà, lo amano di più. Ugualmente, il modo d’amare, di servire, di pazientare, di perdonare del prete sarà molto simile all’amore di un padre, di una madre, e inoltre, non potrà mai prescindere dal fatto di essere presbiteri, ossia chiamati a servire i fratelli, rendendo loro presente attraverso parole e gesti di Cristo e della Chiesa, il Signore Gesù.

Risaliamo all’inizio del ministero ordinato, ossia a quando Gesù trasmette il suo servizio - potere alla Chiesa nel conferimento del primato a Pietro sulle rive del lago di Tiberiade. Per ben tre volte Gesù si rivolge a Pietro e condiziona il conferimento di pascere le pecore alla risposta di Pietro che per tre volte risponde alla domanda di Gesù: sì, Signore ti amo.  Così, alla fine, è proprio l’amore che dice la genuina appartenenza al ministero del Signore, il buon pastore, cioè alla persona di Gesù capo, al quale serviamo “rendendolo presente” - questo è lo specifico sacerdotale; così, alla fine, è ancora l’amore a dire la nostra appartenenza alle persone alle quali siamo stati mandati.

Il vangelo di Giovanni delinea le caratteristiche del buon pastore e quelle del mercenario. Le pecore ascoltano la voce del buon Pastore che le guida una a una e le conduce; il buon pastore, poi, offre la vita per le sue pecore. Amare senza cercare di piacere, è lo stile del Buon Pastore. Il pastore si avvicina meglio alle situazioni degli uomini quando non cerca di piacere, ma di fare il loro vero bene. La carità pastorale si esprime attraverso l’obbedienza quotidiana a quello che il Signore ci prospetta ogni giorno. Amare è sapersi adattare a tutte le situazioni in cui veniamo a trovarci: il brutto tempo, il ragazzo che ti fa perdere la pazienza, la persona che viene a disturbarti mentre lavori, perché ha bisogno di essere ascoltata, oppure anche il non essere capito, ascoltato … dalle persone che ti stanno attorno, o anche dai superiori.

La carità pastorale è quindi un amore che si vive nel proprio ministero quotidiano e conduce non dove vogliamo noi, ma dove siamo mandati.

Il presbitero, al momento dell’ordinazione sacerdotale, s’impegna liberamente a questo tipo di amore. Il nostro modo d’amare, da quando siamo diventati preti non può prescindere, non può non modellarsi o misurarsi sulla carità pastorale.

Per richiamarci a questo tipo di amore proprio nel giorno in cui la Chiesa consacra il Sacro Crisma con cui ogni sacerdote è stato consacrato, gli chiede di rinnovare le promesse fatte il giorno dell’ordinazione.

A loro mi rivolgo con rinnovato affetto, grato per la quotidiana dedizione al loro ministero. Tutti quanti sentiamo il bisogno di essere sempre più fedeli, e di rinnovare quelle promesse che un giorno, il giorno della nostra Ordinazione presbiterale, con il grande entusiasmo della giovinezza abbiamo fatto al Signore nelle mani del Vescovo.

Oggi, siamo chiamati a rinnovare queste stesse promesse nella accresciuta consapevolezza di essere vasi di creta, consapevolezza dovuta all’esercizio costante e a volte faticoso del nostro ministero, che ci fa costatare quotidianamente la grandezza di quello che celebriamo e la pochezza di quello che siamo. Il Sacerdote è l’uomo per il popolo di Dio: la gente ha bisogno di Dio e quando avverte nel prete non solo l’uomo esperto di umanità, capace di ascolto, cordiale, prudente, ma soprattutto l’uomo che ha dimestichezza con Dio, l’uomo che si lascia pervadere dalla sua presenza, l’uomo di preghiera, allora gli offre una fiducia illimitata, gli affida la propria vita e lo fa perché sa che lì, accanto a lui, in lui, c’è Cristo stesso.

Abbiamo bisogno di sacerdoti santi per le nostre comunità, abbiamo bisogno di chiederli insistentemente al Signore, chiediamo la santità per i sacerdoti che il Signore ci ha donato e chiediamo la grazia di sante vocazioni per il futuro della Chiesa. Mi rivolgo ai giovani tra i quali sicuramente qualcuno è chiamato ad offrire la propria vita al Signore per una causa che non è umana, ma divina, una causa per la quale il Signore ha promesso il centuplo in questa vita e la vita eterna. E il Signore mantiene le sue promesse.

cs