Districarsi nella miriade di indagini sulle cosiddette spese pazze non è facile, come non è semplice del resto inquadrare bene la normativa sull'uso dei fondi per l'attività politica. Scomputando l'immagine a volte ridicola che ne è saltata fuori (shopping nei negozi di intimo, soggiorni termali, divani per rilassarsi dalle fatiche del mandato e via dicendo), bisognerebbe concentrare l'attenzione sulla natura incerta della normativa. Chi controlla chi (prima che le carte finiscano sotto il giudizio della magistratura)?
Se c'è negligenza da parte del singolo consigliere, c'è anche da parte dell'Ufficio di Presidenza e del presidente del Gruppo Consiliare. E la Corte dei Conti? Si limita ad esaminare la rendicontazione o pesa anche il valore dell'eventuale danno erariale causato dalle spese disinvolte? E ancora: dov'è stabilito l'esatto confine tra soddisfacimento di un piacere personale (una bella mangiata al ristorante) e propaganda di partito (coordinamento politico intorno ad un tavolo imbandito)?
Il nocciolo della questione è definire l'inerenza degli esborsi - prelevati dalle tasche del contribuente - ad effettive spese di rappresentanza. Spettava al legislatore mettere paletti più solidi. Tocca ai giudici, adesso, incasellare nelle definizioni quello che prima era nebuloso e, purtroppo, legato a prassi e abitudini irresponsabili (se non incoscientemente privatistiche).
L'occhio in questo momento è focalizzato su quanto accaduto tra il 2010 e il 2012 in Regione. L'auspicio è che con la stessa passione si vogliano trattare anche altri sprechi, come per esempio quelli derivanti dalla cattiva gestione dei fondi comunitari. Lì ci sarebbero in ballo ben altre cifre.