«Ci sentiamo studiati, giudicati, violati nella nostra intimità, ma non ci importa, quello che conta è arrivare in fondo, al nostro obiettivo: il famoso nullaosta che ci aprirà le porte all’adozione internazionale. Intanto prendiamo contatti con coppie che hanno già adottato.
Ognuna ci racconta la sua storia e ci rendiamo conto che ogni adozione è un caso a sé, un’esperienza assolutamente unica: c’è chi è stato nel paese di origine del bambino soltanto pochi giorni, chi, invece, ci ha trascorso mesi, chi ha avuto problemi con la burocrazia e con la lingua, chi si è trovato davanti un bambino già grande, con alle spalle un vissuto che noi nemmeno immaginiamo.»
«Poi arriva la telefonata. C’è un bambino e tocca a noi partire. Ha pochi mesi e non ha ancora un nome perché la madre naturale, sapendo di darlo in adozione, ha lasciato la scelta ai nuovi genitori. Allora è proprio vero! “Come sarà?” “Sarà chiaro?” “Sarà scuro?” “Sarà sano?” “Sarà bello?” Quanti sarà! Ci abbracciamo, ridiamo, piangiamo e prepariamo di corsa le valigie, senza sapere che resteranno pronte, lì, sul pavimento di casa, ancora per un mese, perché anche la burocrazia brasiliana non scherza.
Intanto mi metto a studiare il libro dei nomi, perché non pensavamo di doverne scegliere uno. Di ognuno leggo il significato e poi finalmente trovo quello giusto: Davide, amato. Non potrei mai sceglierne un altro. Perché io, bambino mio, non ti ho mai visto, non ti ho mai toccato, non so dove sei e come sei, ma so per certo di averti amato dal momento in cui ho firmato quella pila di scartoffie necessarie per venirti a prendere, anzi, ancora prima, da quando nella vita mia e di tuo padre è scoccata quella scintilla che, anziché impiantarsi nel mio ventre, si è innestata nei nostri cuori.
È arrivato il momento. Si parte.»
«Avevo sempre pensato che Davide sarebbe rimasto figlio unico. Dopo tutto quello che avevamo dovuto sopportare a livello mentale, emotivo e anche economico per realizzare il nostro sogno di genitorialità, non ci passava proprio per l’anticamera del cervello di ripeterlo una seconda volta.
E ora, invece, che mi sta succedendo? Mi sta tornando quella frenesia, quella voglia di andare, di rimettermi in gioco e soprattutto quel “calore” dentro al cuore che è un sintomo molto familiare!»
«Per arrivare all’istituto dobbiamo fare tutto un giro strano perché nel bel mezzo della strada c’è un pezzo di ferrovia.
Ma finalmente eccoci. Mio Dio che desolazione: è un’abitazione completamente circondata da filo spinato. Un vecchio cancello di legno porta in un grande cortile dove convivono, uno vicino all’altro, vecchi giochi per bambini e sterco di cavallo. L’interno non è migliore. C’è un ingresso con la televisione, una piccola cucina e poi tante camerette piene di lettini. Nelle prime dormono i bambini più grandi, in letti a castello, di legno, con materassi sottilissimi, praticamente fogli di gommapiuma.
Non si può certo dire che le caratteristiche principali di questo posto siano la pulizia e l’igiene. In fondo al corridoio ci sono le camerette dei più piccoli. Donna Lavinia ci accompagna in una di queste stanze. Il mio sguardo passa in rassegna quella fila di “gabbiette” allineate, poi si posa su due occhioni, i primi a destra, va oltre, ma torna subito, come attirato da una forza invisibile, su quei due diamanti che spiccano così tanto sullo sfondo marrone, e penso: “è lui, non può essere nessun altro”.
I nostri sguardi si sono incrociati e ho capito che lui sarebbe diventato mio figlio. Anche Donna Lavinia si è soffermata su quel lettino e mi ha detto che quello era il bambino di dieci mesi adottabile: Robson.»
«16 settembre. Si torna a casa. Davanti al cancello c’è il taxi pronto, ma io non mi sento pronta per niente. Saluto Nita, l’abbraccio e non riesco a staccarmi da quel corpicino sottile, da quel sorriso sdentato che la fa sembrare molto più vecchia della sua età, non riesco a smettere di piangere.
Salita sull’aereo ricomincio a piangere. Ho agognato tanto questo momento e ora, invece, sto malissimo. Sto per partire, lasciare questo mondo che per due mesi e mezzo mi ha assorbita completamente, mi ha fatto ridere, piangere, disperare; sto per tornare nel mio mondo, che non sento più così mio.
Tra i miei bagagli ce n’è uno in più rispetto a quando sono partita. È pieno di visi, parole, espressioni, odori, da cui non mi voglio separare. (…)
C’è anche il bambino che, solo come un cane randagio, cerca qualcosa da mangiare dentro ai sacchi dei rifiuti, davanti al ristorante da cui noi siamo appena usciti dopo esserci rifocillati con una succulenta pizza. Non devo lasciarmi coinvolgere, mi ripeto, anche se do qualcosa a lui, girato l’angolo ne incontro un altro, che chiede soldi o cibo, e tiro dritta, proseguo per la mia strada, con la mia pancia piena. Ma quel viso mi appare spesso, a tormentare la mia coscienza.»
«Non tutte le persone che conosco hanno condiviso questa mia scelta, di prendermi due figli, che “non sono miei”. Mi è stato detto, soprattutto per la seconda adozione, che mi andavo a cercare delle grane. Che mi era andata bene la prima volta ed ero incosciente a sfidare di nuovo il destino. Che i figli richiedono tanti sacrifici e danno tanti problemi, figuriamoci quando non ne conosci la provenienza!
(…) I problemi li hanno quelle persone che giudicano un figlio adottivo diverso da un figlio naturale, un genitore adottivo diverso da un genitore naturale. Quello che posso affermare in piena coscienza è che un figlio adottato è un figlio voluto, desiderato, agognato. Non so se tutti i figli naturali hanno lo stesso privilegio»