Civitavecchia è sinonimo di Enel e di carbone. Per questo la città dell’Alto Lazio è stata scelta per ospitare per tutto il fine settimana la seconda assemblea nazionale della Campagna «Stop Enel», promossa da una cinquantina di realtà organizzate della società civile italiana.
Da oltre dieci anni infatti nella cittadina laziale è attivo il Movimento No Coke Alto Lazio, che si batte contro la riconversione a carbone della centrale di proprietà dell’Enel di Torrevaldaliga nord. Dal 2010 l’impianto emette ogni anno 10,3 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2) e oltre 6 milioni di metri cubi l’ora di emissioni inquinanti varie. E i dati sulla salute pubblica nel comprensorio di Civitavecchia sono allarmanti: la zona è al primo posto nel Lazio e al terzo in Italia per mortalità causata da tumori ai polmoni, alla trachea e ai bronchi, con leucemie e linfomi diffusi in maniera nettamente superiore rispetto alla media nazionale. «Non accettiamo compensazioni economiche dall’azienda, pretendiamo che le amministrazioni locali si battano per tutelare la salute dei cittadini e per questo abbiamo promosso una petizione popolare in tutto l’Alto Lazio», rivendica Simona Ricotti, dei «No Coke» - uno dei comitati presenti all’incontro cominciato ieri pomeriggio.
Infatti non c’era solo il Movimento No Coke Alto Lazio a raccontare quali conseguenze drammatiche hanno sul loro territorio e sulla salute dei cittadini gli impianti a carbone della multinazionale italiana, che per un solido 31% ancora di proprietà dello Stato. All’evento di Civitavecchia hanno partecipato anche i «No Coke» di Porto Tolle, il Comitato SpeziaViaDalCarbone, il comitato di Brindisi e il Comitato No al Carbone di Rossano Calabro: e l’obiettivo era stilare un vero e proprio piano d’azione per proseguire le attività della campagna.
«E’ dal 2002 che ci confrontiamo con l’Enel, prima per la centrale a olii combustibili, poi per il progetto di riconversione a carbone», spiega Giorgio Crepaldi dei comita ti di Porto Tolle: «E visto l’atteggiamento arrogante dell’azienda siamo stati costretti a ricorrere alla magistratura, che per il momento ci ha sempre dato ragione». Daniela Patrucco, di La Spezia, ricorda come un referendum del 1990 aveva imposto all’Enel la chiusura della centrale a carbone entro il 2005. «Il 90% dell’energia prodotta deriva dal carbone, noi proseguiamo la nostra lotta anche a livello legale, ma ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni dei nostri territori».
Le mobilitazioni locali in alcuni casi hanno prodotto uno stop ai progetti. È il caso di Rossano Calabro. «Ma c’è comunque un forte problema di smaltimento dei rifiuti derivati dalla combustione, che presenta molte zone d’ombra, mentre troppo spesso, anche con la connivenza dei sindacati, si usa il lavoro come
strumento di ricatto», rammenta Flavio Stasi del coordinamento nazionale «No al carbone».
Durante l’assemblea sono sono stati trasmessi contributi video di rappresentanti di comunità colpite da progetti di Enel in tutto il mondo. Infatti sono 40 i paesi dove Enel opera nel settore dell’energia elettrica e del gas. Nel 2009, con la definitiva acquisizione della società elettrica spagnola Endesa, Enel ha ereditato impianti e progetti in numerosi paesi dell’America Latina. Ad accomunarli è purtroppo un evidente retaggio coloniale, che include legislazioni nazionali anti-democratiche e sistemi di valutazioni ambientale chiaramente inadeguati. In collegamento video, i promotori di Asoquimbo (Colombia) hanno raccontato dei disastri che un mega impianto idroelettrico in costruzione sta provocando sull’intero dipartimento colombiano del Huila. La campagna dunque non guarda quindi solo al carbone, né solo all’Italia (peraltro l’Enel gestisce centrali che sfruttano il più inquinante dei combustibili fossili anche in Est Europa, come in Albania, Romania e Russia, e ne pianifica di nuove). Infatti in Romania e Russia, oltre che in Slovacchia, l’Enel promuove l’energia nucleare, rigettata dai cittadini italiani con il referendum del giugno 2011 e oggi messa in discussione in un numero crescente di paesi.
Poi ci sono le grandi dighe, soprattutto in America Latina (Colombia, ma anche Patagonia cilena e Guatemala). Qui le comunità locali denunciano la mancanza o l’inadeguatezza dei processi di consultazione, il divieto di accesso all’acqua, ingenti danni ambientali e l’aumento dei conflitti sociali nelle regioni interessate, dove spesso la repressione dei governi locali come accaduto in Colombia e in Guatemala - è molto violenta.
La campagna Stop Enel respinge questi paradigmi fallimentari e si batte per un altro modello di produzione, distribuzione e gestione dell’energia e di definizione delle priorità. Un modello reticolare, decentrato ed efficiente basato su impianti di energia rinnovabile su piccola scala, che avvi- cini la produzione di energia al consumo, eliminando la necessità di grandi linee di trasmissione, che preveda l’effettiva partecipazione delle comunità locali nei processi decisionali di pianificazione e gestione del proprio territorio e che non danneggi la salute delle persone e dell’ambiente.