Politica - 03 settembre 2012, 10:27

Riforma del Lavoro, corsi e ricorsi storici

di Andrea Melis

Con la riforma del lavoro Fornero è stata lanciata dal Governo Monti una delle più importanti manovre nell’ambito in questione degli ultimi decenni.

La legge 92/2012 si pone come intervento sul mercato del lavoro con impatti a livello sia della legge 276/2003, meglio nota come legge Biagi, sia in parte anche a livello della nota legge 300/1970, il cosiddetto Statuto dei Lavoratori.


Divenuta legge il 28 Giugno dopo i lavori al Senato con atto nr. 3249 e alla Camera con atto nr. 5256, nasce dopo un iter complesso, con rapporti tesi fra tutte le parti coinvolte e in un clima internazionale che con molta probabilità ne ha influenzato le scelte e gli esiti.


Se dapprima si è assistito ad una riforma delle pensioni che non ha visto coinvolto nessun altro attore oltre al Governo, in questo caso “bontà sua”, sono state chiamate in causa le parti sociali: i sindacati confederali da un parte e la rappresentanza delle imprese, Confindustria in primis, dall’altra. Se non altro i rappresentanti dei diretti interessati hanno potuto compartecipare assumendosi parti di responsabilità delle scelte effettuate.

Sgombriamo subito il campo da una polemica che ha offuscato l’intervento nella sua ampiezza: non è stato discusso solo ed unicamente l’articolo 18 “Reintegrazione nel posto di lavorodella legge 300/1970, la riforma pertanto non deve essere giudicata solo per gli interventi su questo punto.


Le 3 leggi sopracitate ovviamente non sono gli unici interventi che il Legislatore nel corso degli anni ha messo in opera per regolamentare il mercato del lavoro, ma rappresentano storicamente e simbolicamente dei passaggi molto importanti che proviamo a ripercorrere per contestualizzare come si è arrivati ai giorni nostri.


Lo Statuto dei Lavoratori nasce in un periodo storico in cui le lotte sindacali per maggiori diritti in un mercato del lavoro sfacciatamente a favore delle imprese erano divenute un atto estremo di protesta, sulla scia lunga del boom economico e del passaggio italiano da una economica rurale ad una economica industriale, operaia, si era manifestato chiaramente come senza un sistema di regole concertate non era più possibile crescere ordinatamente con benefici per tutti.

Lo scopo profondo quindi della legge 300 del 1970 era ed è quello di tutelare i diritti del lavoratore sia quale semplice lavoratore sia nel più ambito della libertà d’opinione e dell’attività sindacale.

Grande risalto e merito va’ dato a questa legge che ha segnato una linea di demarcazione nei rapporti di forza tra lavoratore e datore di lavoro, portando maggiore equilibrio e migliorando a tendere le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di persone. Certo, con molta probabilità alcuni imprenditori non hanno apprezzato l’intervento, ma in via generale è stata considerata una grande conquista sociale per tutti.


Và però ricordato che ieri come oggi buona parte dello Statuto dei Lavoratori, come il noto “articolo 18”, viene applicato solo alle azienda con più di 15 dipendenti, 5 nel settore agricolo, quindi come recitava una vecchia pubblicità “per molti ma non per tutti”.

Ma in cosa consiste esattamente questo famigerato e discusso articolo 18?


Prima di circoscrivere l’articolo 18 và citata la legge 604 del 1966, nata 4 anni prima della legge 300 del 1970, che norma le procedure di licenziamento individuale, diverse dai licenziamenti collettivi regolamentati dalla legge 223 del 1991, con cui si descrivono i presupposti per un licenziamento individuale: la giusta causa o il giustificato motivo.


La “giusta causa” è generalmente rappresentata da mancanze gravi del lavoratore nell’ambito dell’attività lavorativa, anche se non si escludono casi di fatti commessi dal lavoratore al di fuori del contesto lavorativo come reati gravi puniti del codice penale. Rappresenta comunque in genere cause molto gravi, esempi possono essere il danneggiamento di macchinari, il furto in azienda, violenza e disubbidienza ripetuta.

Il “giustificato motivo” si suddivide a sua volta in 2 ambiti: giustificato motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo. Mentre la prima casistica può in parte sovrapporsi alla giusta causa, nel senso che possono essere comportamenti simili che portano al provvedimento di licenziamento per giusta causa e/o giustificato motivo oggettivo, ai giuristi il compito di distinguere dettagliatamente gli scenari, il secondo ambito ricade nel più delicato contesto delle “ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa”.

In sostanza il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può avvenire perché l’azienda deve effettuare una riorganizzazione, non può ricollocare il lavoratore ed ha come extrema ratio questo provvedimento. Per essere chiari è questa la casistica più delicata della nuova riforma del lavoro “Fornero”, nell’intervento sull’articolo 18, dove prevede che, se impugnato dal lavoratore, il giudice, ravvisato che il provvedimento non è corretto, possa scegliere se reintegrare il posto di lavoro o solamente procedere ad un risarcimento.

Altre principali casistiche di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono la sopravvenuta inidoneità fisica, la custodia cautelare o carcerazione, il superamento del periodo di comporto per eccessiva morbilità


L’articolo 18, in estrema sintesi, consente, o forse meglio dire che consentiva sempre, al giudice cui un lavoratore si sia rivolto per intentare causa contro il datore di lavoro che ha intrapreso il provvedimento di licenziamento, di obbligare lo stesso datore di lavoro al reintegro del lavoratore oltre che a varie voci di risarcimento economico, qualora ravveda che non sussistano elementi di giusta causa e/o giustificato motivo.

Ovviamente nell’ambito delle imprese che impiegano più di 15 dipendenti, al di sotto rimangono solo varie soluzioni di risarcimento economico tranne il caso di evidente discriminazione, per cui non si bada alle dimensioni dell’azienda e si procede al reintegro in caso di dichiarata nullità del provvedimento.


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Nel percorso storico di interventi sul mercato del lavoro và ricordato anche il cosiddetto "Pacchetto Treu" da cui trae origine la legge 196/97 ("Norme in materia di promozione dell'occupazione"). Con questa legge il lavoro interinale, soprattutto le agenzie interinali, e altre forme contrattuali di lavoro atipico entrano a far parte dell'ordinamento italiano del lavoro. Il "Pacchetto Treu" viene considerato come uno dei principali atti legislativi che hanno introdotto la flessibilità del lavoro, secondo alcuni tradottasi in precariato che con la successiva adozione delle legge Biagi ha trovato il suo apice, anche se del “Libro Bianco” di Biagi con probabilità vi sono state distorsioni nell’interpretazione originale dell’ideatore.


Ma tornando all’articolo 18 si può certamente affermare che in principio è bene che le tutele siano estese e non ridotte ma questo è stato già ampio oggetto di dibattito, resta il fatto che negli anni se ne discute, sempre e con tensioni sociali annesse.


Nel 2000 si svolse un referendum proposto dai radicali guidati dal tandem Pannella - Bonino con anche quesiti per la liberalizzazione del mercato del lavoro, tra cui abolire le garanzie previste dall'articolo 18 ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti. Votò solo il 32,00% degli elettori (quindi non si raggiunse il quorum), e il sì comunque non ottenne la maggioranza dei voti validi (33,40%).

Nel 2003 Bertinotti alla guida di Rifondazione Comunista, per risposta ad un primo concreto tentativo di abolizione dell’articolo 18 promosso dal governo Berlusconi sulla scia della imminente riforma del lavoro a marca “Legge Biagi”, poi tornato sui suoi passi dopo lo sciopero generale del 23 marzo 2002, propose un quesito referendario per estendere le garanzie dell’articolo 18 a prescindere dalle dimensioni dello stabilimento in questione.

In questo caso ci furono prese di posizioni particolarmente discutibili, come quella dell’Ulivo e di CISL e UIL che non favorirono il referendum stesso, mentre videro chiaramente allineata la CGIL al Partito di Rifondazione Comunista per ovvie ragioni.

Purtroppo non raggiunse il quorum ma forse si sapeva già dapprima poiché si chiedeva a tutti i cittadini di votare un quesito che riguarda una minoranza degli stessi, questo è un dato di fatto: il tessuto produttivo italiano è fatto di poche grandi aziende e molte realtà piccole, su cui poco incide lo Statuto dei Lavoratori.


Comunque, sempre nel 2003, in Settembre, si assiste all’entrata in vigore della legge 276, nota appunto Legge Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse un anno prima dell'approvazione della legge, firmata dal Ministro del Lavoro di allora Maroni.

La riforma del lavoro pensata da Biagi partiva dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro fosse il mezzo migliore, nella congiuntura economica dei primi anni dello scorso decennio, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro, inoltre intravedeva e cercava di superare una rigidità del sistema che tendeva ad aumentare oltre modo i tassi di disoccupazione.

Ed infatti con il provvedimento in questione sono nati e si sono sviluppati molteplici tipologie contrattuali “atipiche”: i famosi Co.Co.Pro., che hanno affiancato il Co.Co.Co, dalla somministrazione all'apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto, ha inoltre disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l'istituto del lavoro temporaneo o interinale, ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Per tutti i nuovi assunti e soprattutto giovani sono stati quasi accantonati strumenti contrattuali quali l’apprendistato ed il contratto a tempo determinato, a conti fatti meno convenienti.

Lo scenario così definito in effetti, soprattutto nel terziario, ha prodotto un picco di assunzioni di giovani e neo laureati con benefici sui tassi di disoccupazione misurati ma ha altresì prodotto la cosiddetta “Generazione 1000 Euro”, libro e poi film più recenti, dove però ben si fotografa come un impiego senza alcuna certezza, prospettiva, garanzia di stabilità e diritto, precluda qualunque possibilità di progetto di vita e soprattutto freni i consumi di chi vive in quella condizione. Ed infatti tutte le forme di lavoro atipiche sono state sfruttate e un po’ distorte dalle aziende per assumere, ma per loro stessa natura, questi contratti, non consentono la partecipazione del lavoratore a nessuna attività aziendale: dalla formazione al diritto agli ammortizzatori sociali, dalle ferie ai diritti per la genitorialità ed anche in alcuni casi alcuna garanzia in caso di malattia.

Insomma sono nati eserciti di lavoratori di “Serie B” che si trovavano e si trovano a lavorare a fianco di coloro che hanno invece il bollino di qualità con un contratto a tempo indeterminato o determinato o anche solamente di apprendistato, lavorando nella speranza di passare un giorno di categoria.


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Il mercato del lavoro con il passare degli anni è diventato sempre più critico, in termini di tassi di occupazione e “entrata-uscita” dallo stesso mercato.


Arriviamo quindi ai giorni nostri, alla crisi del debito sovrano, allo spread che decolla, ai festini di Berlusconi e in Italia si insedia il governo tecnico di Mario Monti.

Partono a “spron battuto“ con le pensioni per mandarci a casa non prima dei 66 anni, poi non poteva mancare una riforma del lavoro.

Lo chiede l’Europa, almeno così dicono.


L’idea di fondo della riforma Fornero è assolutamente condivisibile, sostanzialmente si pone come scopo quella di ridurre la flessibilità “malata”, cioè gli abusi e le storpiature dei contratti atipici, per prediligere i contratti di lavoro più sani: indeterminato / determinato e apprendistato.

Coerente se si vuole dare prospettive e “progetti di vita” a chi deve entrare o rientrare nel mondo del lavoro, altresì intelligente se si pensa che chi può contare su maggiori certezze nel posto di lavoro è più propenso a fare consumi, acquisti, mutui, debiti che sono gli ingredienti della nostra economia. Non staremo qui a dissertare se questo è giusto o no, è comunque il sistema attuale.


I principali interventi in questo senso si colgono nei seguenti ambiti:

  • Incentivazione al contratto subordinato canonico a tempo indeterminato

  • canale di ingresso privilegiato l’apprendistato

  • contratto a tempo determinato con incentivi al passaggio a indeterminato e maggiori tempi di stand by tra un rinnovo e l’altro per spingere al passaggio definitivo

  • contributi e aliquote per i contratti atipici più gravosi per le aziende


La riforma si è poi focalizzata nell’area degli ammortizzatori sociali, CIGO, CIGS, Mobilità e sussidio di disoccupazione.

Gli interventi sono stati:

  • l’ASPI, una sorta di indennità di disoccupazione che andrà progressivamente a sostituire sia l’indennità come ora prevista che la mobilità, con gradualità progressiva

  • il mantenimento della Cassa Integrazione Ordinaria e della Straordinaria tranne i casi di procedure concorsuali senza alcuna possibilità di ripresa dell’attività lavorativa

  • la progressiva abolizione della Cassa Integrazione in Deroga che verrà sostituita da Fondi bilaterali creati ad hoc

  • viene mantenuta l’indennità una tantum per i co.co.pro, comunque categoria lavorativa ampiamente diffusa


Sui licenziamenti collettivi non vi sono stati interventi di sorta, per la precisione si ricorda che secondo la legge già citata legge 223 del 1991 si definiscono collettivi quando:

  • nell’arco di un periodo di almeno 120 giorni ad almeno 5 dipendenti a tempo indeterminato nella stessa provincia, anche se in più unità produttive;

  • per riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro,


Vengono poi regolamentati temi quali incentivi alle assunzioni per determinate categorie di lavoratori, visto che viene abrogato il contratto di inserimento, fondi di solidarietà per i lavoratori anziani quale supporto in caso di esodi anticipati, sostegno alla genitorialità, strumenti per combattere il fenomeno ampiamente diffuso delle dimissioni in bianco ed altri interventi relativi al supporto fornito dai centri dell’impiego e la formazione permanente.


Ma quando la riforma Fornero parla di flessibilità, si riferisce anche a quella in uscita, quindi immancabilmente si parla e questa volta si modifica l’articolo 18, come originariamente pensato.

In realtà l’esordio del governo è stato piuttosto deciso, la volontà era quella di abolire quel passaggio perché ritenuto per le grandi aziende e per gli investitori stranieri un ostacolo alla nostra competitività. Deve essere riconosciuto in questo caso il ruolo giocato dai sindacati che hanno permesso di ottenere un intervento decisamente meno invasivo, al contrario di Confindustria che era già prossima ai festeggiamenti in grande stile.

Cosa cambia nell’articolo 18?

Sostanzialmente meno di quanto si possa pensare anche se al giudice viene ora affidato un compito ancor più ampio e i tempi della giustizia italiana, come noto, non sono dei più celeri anche se nella riforma sono fissati precise date limite per le controversie di lavoro.

Mentre da un lato permangono il reintegro e l’indennizzo a prescindere nei casi di evidente licenziamento discriminatorio e/o comunque in casi dove i CCNL di riferimento prevedono sanzioni ridotte, dall’altro è possibile avere solo un indennizzo qualora il giudice ne ravveda i presupposti, senza quindi reintegro. Quindi siamo nell’ambito della tutela in caso di licenziamenti intimati per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ritenuti ovviamente non validi, con cui ora il legislatore ha voluto dare maggior rilievo al ruolo del giudice dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, come si dice in gergo.

L’altro grande filone è quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, in particolar modo per ragioni economiche.

Anche in questo caso il giudice può, a seconda del contesto, optare per reintegro e indennizzo o solo indennizzo. E’ però introdotta una interessante procedura obbligatoria di conciliazione preventiva antecedente al primo grado di giudizio che in Germania pare funzioni bene.

Considerate le premesse, preso atto che il Governo in teoria poteva cancellare l’articolo 18 “tout court”, il risultato finale è meno peggio delle più fosche previsioni iniziali.


Ma perché questo ha capitalizzato l’attenzione di tutti? Perché era evidente che da un lato il mondo delle imprese voleva avere mano libera sui licenziamenti per cause economiche, visto il momento congiunturale negativo, senza rischiare di subire cause su cause con la possibilità di essere costretti a riassumere.


Non vi sono dubbi, e la tendenza in Europa sembra essere questa.

Dall’altro lato non si spiega quale ragione di macro economia vi sia in un intervento di questo genere. Veramente l’Europa chiedeva questo? E’ realmente questa la motivazione per cui gli investitori non scommettono sull’Italia? Ovviamente no.


Per concludere questa lunga seppur non esaustiva cronistoria di alcuni recenti interventi in materia di mercato del lavoro, relativamente agli ultimi decenni, si dovrebbero formulare dei giudizi sui vari interventi legislativi nel mercato del lavoro, dove la merce siamo noi lavoratori.


Sullo Statuto dei Lavoratori non vi sono dubbi che sia stato un passaggio pienamente positivo, anzi, se un difetto si deve evidenziare è proprio che non tutti ne beneficiano.

A seguire gli altri interventi con cui si è cercato di individuare le forme più efficenti per regolamentare e dare slancio al mercato del lavoro.

Infine arriva la riforma Fornero cui recentemente anche in un articolo del Corriere si facevano le prime considerazioni.

Combattere la flessibilità in entrata è stata una buona idea in linea di principio, ma di fatto si traduce in un disincentivo all’uso dei contratti atipici e quindi, in alcune realtà, un reale rischio di riduzione di organico, preferita all’esposizione ad un contratto di apprendistato o a tempo indeterminato. Inoltre i lunghi periodo di “stand by” tra un rinnovo e l’altro nel contratto a tempo determinato, possono provocare l’effetto contrario desiderato: piuttosto si cerca un altro lavoratore. Altro elemento da considerare è la riforma delle pensioni.

Proprio l’allungamento considerevole dell’età lavorativa di fatto preclude l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, soprattutto se il canale di ingresso è un contratto di lavoro piuttosto rigido per le aziende.


I contratti atipici, se regolamentati meglio e dotati di alcuni strumenti di “welfare” più assimilabili ai contratti canonici, potevano essere studiati e riproposti in nuove vesti ma funzionali al contesto attuale, ora non ci resta che vedere se vi saranno reali benefici con questa riforma.


L’articolo 18 invece poteva tranquillamente vivere sonni tranquilli e rimanere intonso, anche se in Europa ormai è diffuso un sistema tendenzialmente misto dove vi sono casi di reintegro e casi di solo indennizzo, con alcune eccezioni in ambedue i sensi.


Possiamo comunque concludere e sperare soprattutto che vi siano maggiori capacità di investimento per creare opportunità di lavoro concrete, in una economia reale, perché se c’è lavoro c’è un mercato da regolamentare, ma se non c’è lavoro purtroppo abbiamo ben poco da regolamentare.

 


Andrea Melis