Politica - 17 agosto 2012, 09:40

Veleni d'Italia, L'Acna e gli altri 56: «Sono pochi gli studi realizzati fino ad oggi in questa zona»

Da Gela a Brescia, da Savona a Marghera. Tra discariche tossiche, falde inquinate, emissioni cancerogene. Nei 57 siti di bonifica nazionali c’è l’altra faccia dell’Italia industriale. Ma il governo taglia i fondi. E le aziende chiudono o licenziano. Nello scontro tra salute e lavoro perdono tutti (di Andrea Palladino da Left)

Ci sono altre 56 Taranto pronte ad esplodere in Italia. Luoghi dove i morti si contano – ormai da decenni – a migliaia, terre desolate cariche di diossine, idrocarburi, pesticidi. Resti del periodo d’oro dell’industria chimica e petrolifera italiana. Vallate che hanno accolto milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi, contaminando le falde acquifere, forse per sempre. Si chiamano Sin, acronimo di Sito d’interesse nazionale, luoghi da bonificare con urgenza. Un’espressione che suona oggi paradossale, perché in realtà di queste zone contaminate nessuno parla. Le bonifiche sono decisamente rare e spesso finiscono male, con inchieste giudiziarie ancora aperte. È il caso della Sisas di Pioltello, su cui indaga la procura di Milano, o di Marano e Grado, in Friuli, su cui pende un’inchiesta dei pm di Udine. Le terre contaminate sono una parte consistente del Paese. Ci abitano 9 milioni di persone, quasi il 15 per cento della popolazione, nel territorio di 300 Comuni. A capo delle procedure di bonifica c’è il ministero dell’Ambiente, che spesso affida il dossier a commissari straordinari, con poteri di deroga alle leggi. Pochissimi i soldi a disposizione, con un taglio netto avvenuto nel 2011 di 232 milioni di euro (pari al 31,2 per cento del budget totale), come ha denunciati in uno studio dello scorso aprile la Cgil. Il governo dunque punta a trovare imprenditori in grado di pagare il conto. Il Pdl lo scorso anno aveva presentato un disegno di legge per trasformare i Sin in altrettante zone franche: meno regole, in cambio delle bonifiche. La parola d’ordine è semplificare: «Il problema è il riuso delle terre recuperate – ha spiegato il ministro dell’Ambiente Corrado Clini – e vorremmo semplificare le procedure che consentono di riutilizzare a fini industriali i siti contaminati». L’obiettivo, insomma, è che le terre avvelenate dalle fabbriche finiscano in mano ad altri imprenditori, specialmente agli immobiliaristi, interessati a conquistare terreni, soprattutto attorno alle città del Nord. Un precedente del genere, però, non è andato a buon fine: a Santa Giulia, vicino Milano, un progetto di riconversione immobiliare di un terreno inquinato si è chiuso con l’arresto e la condanna di molti dirigenti del colosso delle bonifiche Green Holding. Sulle operazioni di recupero dei terreni contaminati in Lombardia indaga da diversi mesi la commissione ecomafie. Gli unici numeri che nessuno per ora vuole tagliare riguardano le vittime dei veleni. Sono almeno 416 i decessi sospetti nel solo periodo 1995-2007, secondo il report Sentieri, lo studio epidemiologico curato da università La Sapienza, Cnr, Istituto superiore di Sanità e ministero della Salute, realizzato su 44 dei 57 Sin – tra cui l’Ilva di Taranto – che ancora attendono una bonifica. Con un risultato forse scontato, ma che è bene registrare in memoria: nelle città avvelenate si muore molto di più rispetto alla media. E si muore male, colpiti da tumori fulminanti o da malattie che non lasciano scampo. Devastante è anche la conseguenza del mancato intervento di bonifica, il cui costo – è bene ricordarlo – per legge dovrebbe essere interamente a carico di chi ha inquinato. Un principio che spesso non viene rispettato, con società finite in fallimento che passano la palla alle casse dello Stato. Dal Nord delle grandi storiche industrie, al Sud delle cattedrali nel deserto, fino al mare di Sicilia, dove si affacciano i grandi impianti petrolchimici di Gela e Priolo.

Tra petrolio e mare

Il viaggio tra le mancate bonifiche dell’Italia dei veleni parte da Gela, nella costa Sud della Sicilia, 73mila abitanti colpiti dalla presenza degli impianti destinati a lavorare il petrolio e da diverse discariche non controllate. In questo caso i ricercatori dello studio Sentieri non hanno dubbi: c’è un alto rischio, il cui segnale «più evidente è quello di un eccesso di tumori polmonari sia tra gli uomini sia tra le donne». Seguendo una costante rilevata in gran parte dei siti contaminati, le vittime non si contano solo tra i lavoratori, che sono quotidianamente a contatto con le esalazioni. La presenza di un alto tasso di mortalità tra le donne – normalmente non impiegate nel polo di Gela – secondo lo studio dimostra l’impatto delle emissioni sulla popolazione residente nella città siciliana. La diffusione dei veleni è stata poi accertata attraverso la ricerca dei metalli pesanti nelle verdure prodotte a Gela, trasportati dalle acque irrigue. Segno evidente di una falda ormai compromessa. Come per la maggior parte dei siti d’interesse nazionale anche in questo caso mancano gli approfondimenti necessari per intervenire. I ricercatori spiegano che andrebbero realizzate urgentemente ricerche mirate, per identificare «le vie di esposizione per la popolazione». Solo così, infatti, è possibile avviare la riduzione del danno sugli abitanti. Ma anche a Gela, come a Taranto, vale il ricatto tra ambiente e lavoro. Nel 2002 il sequestro da parte della magistratura degli impianti di pet-cocke produsse una mobilitazione di tutta la cittadina siciliana. La protesta fu risolta dall’intervento del governo, che con un decreto ad hoc sanò le irregolarità. Il ciclo del pet cocke a Gela è ancora in produzione, ma l’Eni ha recentemente annunciato una drastica riduzione di personale: da aprile 500 dipendenti su 1.200 sono in cassa integrazione a zero ore. Alla fine, nell’eterno ricatto lavoro in cambio di veleni, hanno perso tutti. La città di Livorno in Toscana, con la sua raffineria, è uno degli altri punti critici nella mappa dei siti pericolosi. Anche in questo caso le conseguenze dell’industria sono state pesanti, con un aumento di tutti i tipi di tumori. Oltre allo stoccaggio e alla lavorazione dei derivati del petrolio, lo studio Sentieri ha studiato anche l’impatto dell’area portuale, una delle più importanti d’Italia. L’importazione marittima dell’amianto, ad esempio, ha avuto un ruolo centrale nel peggioramento della salute della popolazione e dei portuali. Attraverso le banchine di Livorno, tra gli anni 70 e 80, è passato il 15 per cento dell’eternit importato in Italia. La situazione è addirittura peggiore poco più a nord, a Massa e Carrara, zona dove ancora oggi è in funzione un importante porto commerciale, destinato soprattutto all’esportazione dei marmi. L’attenzione dello studio Sentieri si concentra però sulla zona industriale delle due città toscane, che ha visto la presenza di importanti laboratori farmaceutici, di un polo petrolchimico e di impianti siderurgici. Infine Marina di Carrara negli anni 80 svolse la funzione di piattaforma logistica per l’esportazione dei rifiuti pericolosi: da queste banchine partirono molte “navi dei veleni”, con migliaia di container carichi di scorie pericolosissime, sversate dalle industrie italiane in Africa e in America Latina. Un mix che, secondo lo studio Sentieri, ha avuto come conseguenza l’aumento delle malattie dell’apparato digerente per le donne e un’alta incidenza dei tumori del polmone e del sistema linfatico per gli uomini.

Quel che resta della chimica

Nel ventre produttivo del Nord, in Lombardia, il sito d’interesse nazionale cresciuto attorno alla Caffaro di Brescia abbraccia 3 Comuni, con una popolazione esposta di 200mila persone. Attorno al centro industriale della città, risultata al quinto posto nella classifica dei centri più inquinati d’Europa c’è un’incidenza documentata del linfoma non Hodgkin, dovuto alla contaminazione da Pcb, una delle sostanze più pericolose dell’industria chimica. Solo nel 2003 la Asl di Brescia ha avviato un monitoraggio sanitario sistematico. I primi risultati hanno dimostrato che la sostanza killer era presente in 221 persone su un campione di 1.122 soggetti. Un’incidenza altissima. La Caffaro – società chimica in liquidazione appartenente al gruppo Snia – aveva concentrato una delle produzioni più pericolose, quella degli pesticidi, nel Lazio, a 50 km da Roma. Nove i Comuni coinvolti nella Ciociaria, in un tratto del fiume Sacco che va da Colleferro a Ceccano: 88mila abitanti in un’area di 60 km. Per la popolazione che abita vicino al fiume lo studio Sentieri «osserva un eccesso di mortalità per malattie ischemiche, diabete e per tumori del fegato». Attorno alle aree cresciute negli anni del massimo splendore della chimica ancora oggi gran parte delle terre sono contaminate. Ma la bonifica è ancora lontana. Una situazione simile è visibile nella zona a cavallo tra Piemonte e Liguria, dove sorgeva la Azienda coloranti nazionali e affini, più conosciuta come l’Acna di Cengio. Sono 32 i Comuni coinvolti all’interno di questo sito d’interesse nazionale, un polo chimico conosciuto nel mondo per l’alto impatto ambientale. Nel territorio tra Saliceto, Alessandria, Cengio e Savona, vivono più di 38mila persone. «Sono pochi gli studi realizzati fino ad oggi in questa zona», spiegano i ricercatori del rapporto Sentieri. «Questo rende quindi difficile un’analisi puntuale della mortalità». Ancora una volta la cruda analisi dei ricercatori mostra come nel nostro Paese manchi una vera politica epidemiologica, nonostante la devastazione ambientale sia tra le più gravi d’Europa.

Porto Marghera: è la fabbrica, bellezza

La vasta area di Porto Marghera, alle porte di Venezia, è senza dubbio il più grande sito contaminato del Paese. In un’area composta da 2 Comuni, con una popolazione di 271mila abitanti, si sono concentrate dagli anni 60 in poi le attività industriali più pericolose, molte della quali ancora in attività: impianti chimici, lavorazione degli idrocarburi, discariche di sostanze pericolose, inceneritori di scorie, centrali a carbone. I pochi studi effettuati nell’area sono un ritratto crudele delle conseguenze dell’attività industriale mossa dall’obiettivo dal massimo profitto. Gli abitanti di Marghera muoiono per tumori alla pleura, i pescatori di Chioggia e Venezia sono colpiti da neoplasie al fegato e allo stomaco. Uno studio su 1.658 lavoratori del petrolchimico esposti al cloruro di vinile monomero ha mostrato un netto aumento della mortalità. La vita negli impianti, raccontano i ricercatori, era una sorta di percorso di guerra: i dati raccolti «documentano che l’accesso al petrolchimico si basava su una selezione di coloro che erano in buono stato di salute e nel successivo allontanamento precoce dei soggetti che si ammalavano», si legge nello studio Sentieri. Una situazione, questa, che bene conosce l’attuale ministro dell’Ambiente Corrado Clini, che a Porto Marghera ha svolto fino al 1990 la funzione di responsabile del settore igiene pubblica dalla Asl. Porto Marghera è stato anche il nome di una inchiesta condotta dall’ex magistrato Felice Casson, oggi senatore del Pd, che ipotizzò il reato di strage. Nel 2001 i 28 imputati vennero assolti, mostrando come le armi per colpire i responsabili fossero spuntate. In quel processo le vittime contate dalla Procura erano 157, tutte colpite da tumori. L’appello del 2004 condanna solo 5 imputati, i vertici della Montedison, per l’omicidio colposo di un operaio. Ma per gli altri imputati ci fu l’assoluzione per prescrizione.

Pitelli, la collina dei veleni

C’è un luogo in Italia che ha conosciuto praticamente tutti i veleni prodotti dalle industrie più pericolose. È la collina di Pitelli, una gigantesca discarica realizzata negli anni 70 sul golfo di La Spezia. Sequestrata dalla Forestale nel 96, oggi è un luogo giudicato non più bonificabile. In 4 vasche sovrapposte si trovano i resti dell’Acna di Cengio, degli inceneritori della De Bartolomeis di Milano, della Union Carbide Unisil, solo per citare i casi più noti. Lo studio Sentieri registra anche per questo sito la gelida statistica delle morti: «Risultano in eccesso negli uomini la mortalità per il tumore dello stomaco, del polmone, della pleura e per malattie dell’apparato respiratorio». I pochi studi epidemiologici disponibili non sono però stati sufficienti per colpire a livello giudiziario i responsabili. Nel processo – iniziato nel 96 e durato scandalosamente 14 anni solo per il primo grado – furono ipotizzati reati come il falso e la corruzione. Mazzette registrate, secondo gli inquirenti, in una sorta di libro mastro della corruzione. Eppure mai punite per l’arrivo della prescrizione. Non è stato possibile per i giudici stabilire quante morti siano dovuti agli ambienti di lavoro dei cantieri navali di La Spezia, e quante ai veleni di Pitelli, facendo cadere anche l’accusa principale: disastro ambientale. Ancora una volta mancano le ricerche sulla popolazione che vive a poche centinaia di metri dalla discarica e l’esistenza in un ridotto spazio di tante fonti di contaminazione ha reso impossibile accertare le responsabilità dei singoli gestori. La collina dei veleni di Pitelli, come tantissimi altri Sin, rimane intatta, un monumento alla devastazione ambientale dell’Italia. Con la stravagante idea di qualche esponente del Pdl di trasformare il tutto in una gigantesca zona franca.

www.left.it/2012/08/02/veleni-ditalia/5564/

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