"Maruska Piredda, consigliere regionale e responsabile Lavoro Welfare per la Liguria di Italia dei Valori, interviene sulla situazione dell’Ilva.
«Ora se la prendono con i giudici che fanno il proprio dovere. A loro hanno assegnato i panni del “poliziotto cattivo” nella vicenda Ilva. Dall’altra parte, invece, una maggioranza politica che ostenta la parte del “poliziotto buono”, che s’indigna davanti alle decisioni di un gip che ha avuto il coraggio di prendersi responsabilità che altri potevano, anzi dovevano, prendersi prima. Un coraggio che troppo spesso una certa classe dirigente ha dimostrato di non conoscere.
Disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico: con queste motivazioni è stata decisa la messa sotto sequestro delle sei aree dell’acciaieria di Taranto. Motivazioni che fanno rabbrividire da un lato e dall’altro riflettere sui perché chi poteva intervenire prima di arrivare all’extrema ratio del sequestro non lo abbia fatto. E ora emergono i dati sui danni alla salute dei lavoratori dello stabilimento di Taranto e agli abitanti di una città che senza la più grande acciaieria d’Europa ha la quasi certezza di morire dal punto di vista economico.
Morire di fame o di cancro. La scelta per anni è stata (e tuttora è) la seconda. L’incidenza di tumori nei quartieri attorno allo stabilimento dell’Ilva di Taranto è maggiore del 15% alla media con un picco del 30% per il carcinoma al polmone. Dallo studio pubblicato dal Corriere della Sera emerge anche un tasso di mortalità per malattie respiratorie del 10% superiore alla media. Dati che avvallano, con certezza scientifica, una drammatica realtà per cui, negli anni, tanti medici di famiglia di Taranto hanno visto morire i propri pazienti.
È possibile pensare che nessuno di chi avrebbe potuto mettere fine a questa situazione sapesse quale tragedia si stesse consumando sotto le ciminiere di Taranto?
E pensare che analogo scenario era stato palesato a Genova, nel quartiere di Cornigliano, dove dal 1938 era attivo lo stabilimento metallurgico dell’Italsider, acquistato poi dalla famiglia Riva negli anni Novanta. Su Cornigliano, fino dagli anni Ottanta, l’allarme da inquinamento di ossido di carbonio, benzene, benzopirene, biossido di zolfo, ossidi di azoto e polveri aveva raggiunto livelli insostenibili. Incalzati dalle proteste dei cittadini, gli enti locali e ministero dell’Economia avevano trovato un accordo con la proprietà fino a raggiungere nel 2005 l’intesa che ha sancito la fine della produzione a caldo e l’inizio della bonifica ambientale delle aree. Per salvaguardare i livelli occupazionali (3mila addetti diretti) un piano industriale che prevedeva il potenziamento delle attività a freddo e l’impiego di parte della forza lavoro dell’acciaieria in progetti di pubblica utilità.
A conti fatti, oggi, non solo l’esempio di Genova non è servito alla proprietà per trovare la necessaria mediazione tra profitto d’impresa e salute dei lavoratori anche a Taranto, ma c’è anche il rischio, concreto, che venga vanificato lo sforzo realizzato nel capoluogo ligure: se chiude Taranto, chiuderà anche Genova e circa 1.800 lavoratori diretti potrebbero restare per sempre a casa.
Ora è il momento che la politica si prenda le proprie responsabilità. Correre ai ripari su Taranto non basta. Serve un cambio di rotta deciso, serve vigilare e intervenire attraverso una seria politica industriale che tracci finalmente il solco dove porre le fondamenta per un programma economico a lungo termine."
Non basta reperire le risorse per interventi di adeguamento: occorre vigilare perché i 336 milioni di euro di finanziamenti pubblici per la bonifica non siano solo una pezza, ma una base di partenza per cogliere le opportunità dell’innovazione e della sicurezza industriale, che costituiscono il vero patto d’acciaio tra i diritti alla salute e al lavoro, sanciti dalla Costituzione».