Niente assoluzione per chi, durante una accesa discussione, rivolge al 'rivale' la frase ''non hai le palle''.
Nonostante l'evoluzione del linguaggio verso la ''volgarizzazione delle modalita' espressive'', per la Cassazione, chi pronuncia queste parole commette il reato di ingiuria perche' mette in dubbio non tanto la virilita' dell'avversario quanto la sua determinazione e coerenza, ''virtu' che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile''.
Con la sentenza 30719, depositata oggi e relativa a un'udienza svoltasi lo scorso 26 giugno, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un avvocato potentino, Vittorio G., contro il cugino Alberto G., giudice di pace a Taranto, che in tribunale durante una lite gli aveva appunto rivolto la frase ora incriminata dai giudici con l'ermellino.
Anche i magistrati di primo grado avevano ritenuto offensive quelle parole, ma poi, in appello, il verdetto fu di innocenza e venne decretato - dal Tribunale di Potenza con sentenza del 24 gennaio 2011 - che l'accusa di ingiuria ''non sussisteva'' perche' ''mancava una effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall'imputato'' in quanto proferita ''nell'ambito di una contesa familiare''.
Alberto fu assolto.
Contro il suo proscioglimento ha protestato il legale di Vittorio sostenendo, in Cassazione, che e' lecito dire ''non rompere le palle, equivalente all'invito a non intralciare l'opera di qualcuno'' mentre lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire ''non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini''. E la valenza offensiva - ha aggiunto l'avvocato della parte lesa - e' ancora piu' grave ''se pronunciata in ambiente di lavoro''.
Con questa linea 'colpevolista' ha pienamente concordato la Quinta sezione penale della Suprema Corte affermando - con la penna del consigliere Maurizio Fumo - che ''a parte la volgarita' dei termini utilizzati, l'espressione ha una indubbia valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilita' del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtu' che, a torto o ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile''. Inoltre, aggiunge la Cassazione, ''la frase fu pronunciata in un contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce alta ed era udibile anche da terze persone''.
''In tali circostanze - osserva ancora l'Alta Corte - il pericolo di lesione della reputazione di Vittorio G. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base di una pretesa 'evoluzione' del linguaggio verso la volgarizzazione delle modalita' espressive''.
Ora sara' un giudice civile a stabilire se, e per quale ammontare, dovra' essere risarcito il cugino offeso nelle ''virtu' maschili''.