- 02 marzo 2012, 08:19

DeBenedetti a Servizio Pubblico: non si può imporre alla gente una cosa che respinge perchè non ne ha nessun vantaggio

L'affermazione fatta sulla questione No-Tav, ma direbbe la stessa cosa per la questione Tirreno Power?

In un'intervista a Servizio Pubblico in merito alla questione No-TAV, Carlo De Benedetti, in qualità di Presidente del Gruppo Editoriale l'Espresso, sostiene:

- "Fondamentalmente ho fiducia nella gente"

- "Non si può imporre una cosa ad una comunità che la respinge, perchè non ne trae alcun vantaggio".

Se non sapessimo che a pronunciare queste parole sia stato proprio DeBenedetti, si potrebbe pensare addirittura che sia un discorso fatto da un appartenente al movimento NO-TAV.

Affermazione assolutamente condivisibile, visto che il progresso verte proprio sul dualismo tra costi vs benefici sociali (intendendo per sociali la collettività nel suo complesso, e non solo una parte di essa).

Quando i costi sociali sono in una percentuale sensibilmente minore rispetto ai benefici (occupazione, riqualificazione urbana, miglioramento della qualità della vita etc...), e vengono calcolati non solo su un singolo fattore ma nel complesso del contesto produttivo di un'intera area, allora il progresso è accettabile.

Al contrario, quando i costi (impatto ambientale, impatto sulla salute, investimenti pubblici elevati etc.) superano i benefici allora non va accettato, poichè non si tratta di "progresso", ma di "regresso".

Ora, De Benedetti fa quest'affermazione, come detto, in qualità di Presidente del Gruppo Editoriale l'Espresso.

Ma se gli fosse posta la stessa domanda come manager di Sorgenia, in merito all'opposizione della cittadinanza nei confronti dell'ampliamento della centrale Tirreno Power, nel cui progetto ha interessi economici diretti?

Beh, paradossalmente, a memoria di quello che ha Espresso (mi si perdoni il gioco di parole) nell'intervista a Servizio Pubblico, potrebbe anche essere. E per un motivo molto semplice: ci sono diversi modi di imporre.

In Val di Susa l'imposizione di un progetto inutuile, dannoso, costoso e non voluto, è operata attraverso la violenza, ed in maniera plateale. Tutti sanno che in Val di Susa, a fronte delle prime manifestazioni (assolutamente pacifiche) degli abitanti e dei movimenti locali, lo stato ha risposto con l'uso della violenza indiscriminata da parte delle forze dell'ordine e con la blindatura del cantiere. Un atto fascista e criminale.

A savona invece la strategia è ben diversa. L'alternativa alla violenza fisica è quella morale: il ricatto occupazionale. Di fronte alla perdita di posti di lavoro e quindi alla minaccia di una situazione disperata per le famiglie coinvolte dalla chiusura degli stabilimenti, si finge che un progetto, i cui costi sono chiaramente superiori ai benefici, possa essere una "soluzione parziale" al problema disoccupazione.

Uno stratagemma molto più fine, ma identico a quello della Val di Susa: lo strumento è sempre la paura (lassù di rimanerci secchi per qualche manganellata in testa, qui di non sfamare le proprie famiglie).

L''unica differenza è che se in Val di Susa, ad operare violenza fisica, ci sono Polizia e Carabinieri, mentre qui, ad operare violenza psicologica, ci sono i Sindacati Confederali.

 

 

 

 

Matteo Loschi