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Attualità | 16 febbraio 2012, 08:52

Carceri, la replica di Martinelli

Il segretario generale aggiunto della SAPPE approfondisce la questione sovraffollamento e propone un sistema carcerario a tre livelli.

Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto SAPPE

Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto SAPPE

A seguito del comunicato inviatoci ieri dall segretario generale aggiunto della SAPPE Roberto Martinelli, ne abbiamo approfitatto per approfondire alcuni temi, in questo caso quello del sovraffollamento delle carceri, di cui troppo poco spesso poco si sente parlare e che si ricordano solo a fronte di fatti di cronaca (spesos nera).

Lo stesso Martinelli ha colto questa opportunità e ha deciso di esprimere considerazioni nella direzione da noi proposta, attraverso una mail alla redazione, che pubblichiamo volentieri.

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Spettabile Redazione,

Matteo Loschi commenta le mie dichiarazioni sulla recente conversione in legge del decreto del Governo in materia di criticità penitenziarie rilevando che “Martinelli (SAPPE) elogia l'approvazione della Legge su tensione penitenziaria, ma dimentica le ragioni del sovraffollamento” (Savona news, ATTUALITA' | MERCOLEDÌ 15 FEBBRAIO 2012, 08:28).

Chiedo allora la cortesia di poter esprimere alcune considerazioni, atteso che è del tutto evidente come le mie dichiarazioni non erano sulla complessiva criticità che attanaglia da anni l’intero sistema dell’esecuzione penale in Italia ma riferite ai contenuti del provvedimento convertito in legge dalla Camera dei Deputati.

Quando si parla di carcere è sempre molto forte la tentazione di sviluppare ragionamenti ispirati a singoli eventi o a specifiche questioni, che occasionalmente ed improvvisamente fanno diventare interessante il dibattito sul mondo penitenziario.

Non bisogna, però, correre il rischio di discutere di questi temi sull’onda dell’emozione e senza tener conto della complessità del carcere e della necessaria sistematicità che dovrebbe caratterizzare eventuali interventi.

E’ evidente che è ristretto, in misura diversa, ma in ciascun carcere, un numero di persone di molto superiore alla massima capacità ricettiva degli istituti (circa 23.000 detenuti rispetto alla capienza regolamentare). Questo è quello che normalmente si dice quando si parla di sovraffollamento.

La cella è il luogo in cui si svolge la vita del detenuto; per cui si dovrebbe disporre di un locale in un certo senso confortevole che garantisca gli standards minimi di vivibilità, ritenuti un requisito indefettibile dalla Corte Europea.

Invero, nella gran parte degli istituti penitenziari i detenuti vivono in tre in celle di nove metri quadri ed in cameroni dai dieci ai diciotto metri quadri vivono tra le otto e le quindici persone. A Savona poi, nel carcere di Sant’Agostino, vi sono addirittura celle senza finestre...

Sia chiaro: bisogna, dobbiamo togliere la libertà a chi è riconosciuto colpevole di avere commesso un reato ma non possiamo togliergli la dignità. Così, alla riduzione degli spazi conseguono una maggiore promiscuità ed una più probabile conflittualità: aumentano i tempi di rotazione per il lavoro interno, diminuiscono le possibilità di accesso a spazi comuni e alle altre offerte trattamentali, diminuisce la capacità di risposta del mondo penitenziario alle istanze dei detenuti.

Il sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane è certamente un problema storico ed è un problema comune a molti Paesi europei, che hanno risolto il problema in maniera diversa.

Caratteristiche uniche del nostro Paese sono il flusso e i periodi di permanenza in carcere. Ogni giorno entrano ed escono centinaia di persone dal carcere, un movimento che comporta uno stress enorme del sistema soprattutto in una fase, quella dell’accoglienza, che è la più delicata e la più difficile da gestire: questo quadro complesso è reso ancora più difficile dalle caratteristiche della popolazione ristretta, in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e da persone con problemi mentali.

In questo senso va apprezzato lo sforzo del provvedimento appena convertito in legge che, ribadendo peraltro quanto già prevede il Codice di procedura penale del 1989, prevede il ricorso prima ai domiciliari, in seconda istanza alle camere di sicurezza e solo in maniera residuale al carcere, per gli arrestati in flagranza per reati di competenza del giudice monocratico con rito direttissimo (tranne furto in appartamento, scippo, rapina ed estorsione semplici), in attesa dell'udienza di convalida che si svolge, entro 48 ore e non più 96, nel luogo in cui l'arrestato è custodito.  Ogni anno infatti oltre 20 mila persone entrano ed escono dagli istituti penitenziari nell'arco di tre giorni.

L’osservazione della tipologia dei detenuti che fanno ingresso in carcere e dei reati di cui sono accusati consente di affermare come il sistema della repressione penale colpisca prevalentemente la criminalità organizzata e le fasce deboli della popolazione: in effetti, il carcere è lo strumento che si usa per affrontare problemi che la società non è in grado di risolvere altrimenti.

Fino a qualche decennio fa si era riusciti a portare al centro dei problemi della sicurezza e della giustizia il mondo delle carceri, avviando un profondo processo di riforma, coniugando sicurezza con ragionevolezza, con trattamento, con umanità.

E’ giunta l’ora di ripensare la repressione penale mettendo da un lato i fatti ritenuti di un disvalore sociale di tale gravità da imporre una reazione dello Stato con la misura estrema che è il carcere: e dall’altro, anche mantenendo la rilevanza penale, indicare le condotte per le quali non è necessario il carcere: una opzione di questo tipo dovrebbe ridisegnare il sistema a partire dalle storture determinate dal doppio binario per i recidivi, dalle norme in materia di immigrazione e dalla individuazione delle risorse per affrontare il tema delle dipendenze e dei disturbi mentali fuori dal carcere.

Si potrebbe quindi ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli. Il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, quale è l’istituto della “messa alla prova”. Il secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario.

Nell’ambito delle prospettive future occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema. E la Polizia penitenziaria che riteniamo debba connotarsi sempre più come Polizia dell’esecuzione penale, oltrechè di prevenzione e di sicurezza per i compiti istituzionali ad essa affidati dall’ordinamento, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative.

Nell’ambito delle prospettive future, occorre che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema.

Non è solo risolvendo il problema del sovraffollamento che migliorerà la qualità del tempo che i ristretti trascorrono in carcere: sarebbe ad esempio opportuno ed auspicabile che i nostri parlamentari si dessero da fare per varare norme finalizzate a far lavorare i detenuti, che oggi in buona parte (quasi l’80%!) oziano in cella 20 ore al giorno, anche impiegando quelli che hanno commesso reati di minore allarme sociale in progetti di recupero del patrimonio ambientale.

E’ auspicabile, infine, che accanto alle dichiarazioni di emergenza e all’intento di realizzare nuovi spazi vi sia un’ampia riflessione sull’attuale condizione del sistema penitenziario e sui reali interventi da effettuare per rendere compatibile con la Carta Costituzionale il sistema dell’esecuzione della pena, facendo contestualmente i conti con l’idea diffusa nella opinione pubblica secondo la quale la pena deve necessariamente implicare una sofferenza, anche ulteriore, rispetto a quella consistente nella privazione della libertà personale.

Noi siamo disposti, come sempre, a fare la nostra parte.

Un cordiale saluto e grazie sempre per la Vostra attenzione!

 

Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto SAPPE

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