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Attualità | 15 febbraio 2012, 09:41

Culp piange miseria: ricatto occupazionale per non pagare?

Di fronte alla condanna al risarcimento per morti sul lavoro, la Compagnia Unica dei lavoratori portuali si appella al tribunale Civile, lamentando il rischio chiusura

Culp piange miseria: ricatto occupazionale per non pagare?

Quanto vale la vita di un lavoratore? Già la domanda vale un milione di dollari.

Ebbene, per il Tribunale Civile di Savona, le famiglie dei due ex soci della Compagnia Unica dei Lavoratori Portuali, morti a causa dell'esposizione all'amianto sul luogo di lavoro, avrebbero diritto ad un risarcimento totale di circa 2,4 milioni di euro, che la compagnia dovrebbe elargire per metà subito, mentre per l'altra metà il tribunale avrebbe concesso una sospensione.

Chiaro che, in tempi di crisi, questa cifra venga giudicata spropositata, soprattutto per chi la deve pagare. E infatti, la Culp ha presentato ricorso, sostenendo (come si legge su alcune testate locali) di essere sì disposta a pagare, ma solo di fronte a "somme più ragionevoli", e che, indipendentemente da un riesame circa le proprie responsabilità, il pagamento di tale cifra significherebbe la chiusura della Compagnia.

Sempre leggendo nelle varie testate, la notizia sembra non destare particolare scalpore, probabilmente proprio a fronte della oramai metabolizzata visione della crisi che non risparmierebbe nessuno.

In realtà però, a leggere bene, la questione della condanna alla Compagnia Unica dei Lavoratori Portuali di Savona nasconde un problema molto più ampio, quello della sicurezza sul posto di lavoro nelle sue varie forme e contesti, che necessita di alcune considerazioni.

La prima considerazione da fare è la differenza (teorica) tra la gestione cooperativistica e quella del mondo privato.

Partendo dal presupposto che la legge impone determinate norme di sicurezza a tutela dei lavoratori, mentre nel settore privato si reputa naturale che avvengano (in teoria) controlli severi da parte degli organi competenti, la "gestione autonoma" dei soci-lavoratori delle cooperative presuppone (nell'immaginario collettivo) che avendo essi stessi l'onere della propria autotutela questi controlli possano essere minori. Già di per se, tale differenza non dovrebbe esistere, e i controlli avrebbero dovuto essere stati fatti senza distinzioni.

Ma al di la dei controlli pubblici, proprio a fronte dell’interesse ad auto tutelarsi da parte dei lavoratori delle cooperative, come si giustifica la carenza di sicurezza?

Perchè anche nelle cooperative la tendenza è sempre verso il maggior profitto, concetto ben lontano dall'equa distribuzione delle risorse e dalla maggior "tutela" dei lavoratori?

Evidentemente l'idea storica che vedeva le cooperative come "isole di socialismo" si scontra con l'inevitabile inserimento delle stesse in un contesto economico capitalista, fondato sulla logica concorrenziale e nel quale, per sopravvivere, si finisce coll’essere costretti ad incidere sul (fin troppo basso) costo del lavoro, inteso come costi diretti (salari) e indiretti (condizioni contrattuali, sicurezza etc), esattamente come nel privato.

Un accanimento all'abbattimento dei costi a fronte del quale anche la Compagnia Unica Portuale di Savona non è stata da meno, visto che non si è mai nemmeno posta il problema, ad esempio, di dotarsi di una adeguata assicurazione.

Di fatto quindi, le stesse cooperative sono costrette a muoversi sul mercato con logiche identiche a quelle padronali e quindi dovrebbero tranquillamente essere considerate aziende che si muovono nell’ottica della ricerca del profitto.

E parlando di profitto si arriva alla seconda considerazione: in un contesto di (praticamente) monopolio all'interno dell'area portuale savonese, com'è anche solo possibile che la compagnia affermi di non avere (o aver raggiunto) margini di profitto sufficienti a garantire la sicurezza, un'assicurazione o, in questo caso, la copertura del risarcimento dovuto?

Eppure, di fronte alla condanna, la Compagnia Unica portuale lamenta il rischio di chiusura e, di fatto, chiede di non pagare.

Indipendentemente dalla "redistribuzione delle colpe" con l’Autorità Portuale, (che par strano non abbia nessuna responsabilità sul mantenimento delle norme di sicurezza all'interno dell'area di sua competenza), si arriva alla terza considerazione: il dovere di risarcire.

Secondo Medicina Democratica, Movimento per la tutela della salute sul posto di lavoro presente anche a Savona, malgrado la possibilità di chiusura della Compagnia (qualora il tribunale confermasse la sentenza), non esistono alternative al diritto al risarcimento degli eredi.

Questo perché, come accade anche in questo caso, se il ricatto occupazionale venisse utilizzato per negare agli eredi il giusto risarcimento (e ai lavoratori la giusta sicurezza), tutte le altre aziende e padroni in generale si sentirebbero in diritto di rivendicare lo stesso trattamento, alimentando una tendenza già troppo diffusa ad attaccare la salute sul lavoro in nome del profitto.

Medicina Democratica porta ad esempio i casi Eternit e ThyssenKrupp, nei quali la stessa MD era parte civile in causa: anche in questi casi le condanne ed i relativi risarcimenti sono milionari ma sono comunque da ritenere sentenze esemplari per tutte le aziende che non garantiscono il rispetto delle norme sulla sicurezza.

In questi casi, poi, la chiusura di un intero settore, quello dell’amianto, o di uno stabilimento (peraltro già in dismissione come quello di Torino) non ha meravigliato nessuno, a fronte dell’enorme danno creato alla salute collettiva.

Casomai nel caso della Culp,  qualora fosse costretta a dichiarare il proprio fallimento, l’obiettivo potrebbe essere quello di venire sostituita, nei traffici portuali che comunque rimangono sempre da svolgere, da una nuova realtà (che potrebbe essere sempre autogestita, ma si spera con una maggior attenzione verso la salute e verso la necessità di proteggere i bilanci), a cui spetterebbe il compito di inserire all'interno dell'organico gli stessi lavoratori impiegati attualmente nella Compagnia.

Da questo punto di vista il problema della disoccupazione potrebbe essere considerato secondario, e questo dovrebbe dare un'ulteriore spinta al tribunale per garantire (almeno) un risarcimento economico alle famiglie delle vittime.

Matteo Loschi

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