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Attualità | 15 febbraio 2012, 08:28

Carceri, nuovo decreto, ma le soluzioni alla radice?

Martinelli (SAPPE) elogia l'approvazione della Legge su tensione penitenziaria, ma dimentica le ragioni del sovraffollamento.

Carceri, nuovo decreto, ma le soluzioni alla radice?

Arriva alla nostra redazione il comunicato stampa con cui Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, esalta la notizia dell’approvazione alla Camera dei Deputati della conversione in legge del decreto legge 211/2011 concernente interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri.

E noi, per dovere di cronaca, lo riportiamo.

Nel comunicato il dott Martinelli fa tre cose:

- esalta in particolar modo la questione dell'accesso al carcere solo ed esclusivamente dopo che il giudice lo ha disposto nell’udienza di convalida, che si dovrà tenere entro le 48 ore dall’arresto, evitando il meccanismo delle porte "girevoli", ovvero la detenzione di qualche giorno e il continuo entrare uscire dai penitenziari;

- critica pesantemente chi definisce questa norma "indulto mascherato", richiamando l'indulto a quello voluto dal Governo Prodi;

- attacca la Lega perchè contraria al prolungamento dei domiciliari conclusivi (quelli a fine pena) da 12 a 18 mesi, malgrado i 12 li avesse chiesti con forza ptoptio il partito padano.

Sono tutte e tre valutazioni su cui poter scrivere separatamente e che probabilmente, ad approfondirle, ci sarebbe pure da discutere. Ma in questo caso ci limitiamo a girare.

Quello che però emerge da queste considerazioni è il cosa manca, ovvero i due punti che, in anni di discussioni sulla soluzione al sovraffollamento delle carceri, vengono sempre omessi:

- il ruolo (la funzione) del carcere

- la scelta dei carcerati

In merito alla funzione del carcere, da molto tempo è scomparso (anche dai media) il dibattito sulla funzione della pena, lasciando che l'individualismo del sistema nel quale viviamo si sfoghi nella repressione e nella vendetta, alimentando la disgregazione sociale.

Non è un caso che, secondo alcuni, la pena debba avere un ruolo puramente punitivo, quasi a voler dimostrare il rifiuto della società a contenere e a convivere con elementi che non hanno "rispetto per la legge".

In questo caso è trasparente il sentimento di vendetta e di irrazionalità che guida il pensiero di chi sostiene questa tesi, in quanto chi solitamente sostiene tale giudizio viene portato a scavalcare fondamenti giuridici che stanno alla base della vita sociale, arrivando a giustificare la pena di morte ed il carcere a vita, passando talvolta dalla parte del torto, nella convinzione che solo soddisfacendo la propria rabbia e la propria emotività si possa ottenere giustizia.

Appartengono a questa categoria coloro che si limitano a valutare il problema delle condizioni dei detenuti con affermazioni del tipo: "La TV? Il biliardo? La palestra? Ma dove credono di essere? È un viaggio premio in un albergo con tutto pagato (da noi tra l'altro)?"

Altri invece attribuiscono alla pena una funzione preventiva; queste persone sono convinte che la punizione per un reato debba essere abbastanza dura da poter spaventare gli ipotetici futuri rei ed indurli a non violare la legge.

Anche in questo contesto purtroppo vengono giustificate pene troppo eccessive, quali il carcere a vita o (fortunatamente non in Italia) la pena di morte; tuttavia questa visione del carcere dimostra la propria fragilità e cade nel momento in cui nelle carceri vi è anche un solo detenuto, in quanto è la palese dimostrazione che il tentativo di "incutere paura" non ha avuto successo.

In contrasto con queste due tesi ve n'è una, purtroppo sempre più rara, che però rispecchia quella sostenuta dalla nostra concezione giuridica della pena contenuta nella costituzione: lo scopo rieducativo della pena come mezzo per la reintegrazione del reo nella società.

Tale tesi si fonda sul concetto di proporzionalità della pena rispetto al reato, e nella speranza di recupero del reo e il rispetto dei diritti dell'individuo, anche quando "sbaglia".

In questo senso la privazione della libertà rappresenta già un castigo sufficiente, in quanto l'impossibilità di una vita sociale con la propria famiglia, la frustrazione nel veder sfuggire ogni opportunità di trovare gratificazione nel lavoro e nello sport, la mancanza di affetti e di tutte quelle piccole cose quotidiane che caratterizzano la nostra esistenza e dell'importanza delle quali ci accorgiamo solo quando ci mancano, non necessitano di ulteriori infierimenti, che rappresenterebbero una sorta di persecuzione di contenuto puramente vendicativo.

Tali mancanze però suggeriscono quello che è il secondo punto di discussione oggi sempre più dimenticato: chi sono le persone che oggi riempiono (fino all'eccesso) le carceri? E di conseguenza, com'è possibile che ci siano, in una società che si ritiene civilizzata ed avanzata, così tanti rei?

Rispondere a queste domande significherebbe ragionare su alcune lacune del nostro sistema che, se affrontate, rappresenterebbero soluzioni al problema non solo delle carceri:

- l'accanimento verso i migranti (una grande parte dei detenuti) e il quanto la nostra cultura ed il nostro ordinamento impediscano, di fatto, l'integrazione

- la crescita esponenziale dei "reati minori" e della sproporzione delle pene, che spesso consegue la detenzione di individui facenti parte delle classi meno abbienti per reati come piccoli furti, o consumo di droghe leggere (non è un caso che siano in aumento il numero dei giovani detenuti, spesso disillusi e disadattati, che non trovano altre valvole di sfogo in un sistema che non offre neanche la speranza di un futuro)

- la tendenza, in enorme crescita, all'uso delle carceri come strumento di repressione politica. Un esempio è l'uso della detenzione preventiva per i manifestanti come il ligure Gabriele Filippi.

Matteo Loschi

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