Attualità - 16 novembre 2011, 09:05

Il tribunale dell'ingiustizia

Triste vedere come, quasi nel 2012 ormai, sia ancora difficile far rispettare i propri diritti e le proprie convinzioni religiose in un paese così “moderno” ed “avanzato” come l’Italia

Crocevia di popoli e culture dalla Notte dei Tempi, penisola con migliaia di persone che da centinaia di anni vanno e vengono dal Bel Paese lasciando tracce indelebili della loro presenza per l’eternità.

Persone diverse, con le loro specificità, con le loro religioni, con le loro differenze (ricchezze?).

Persone che ancora oggi però faticano a vivere la normalità del quotidiano, costrette ancora ed ancora a dover continuamente giustificare le proprie credenze, se non a rinunciare in prima persona, ad un qualcosa di importante, per non dover snaturare il loro essere più profondo.

Questo è accaduto a Fatima, una giovane tunisina residente a Torino, che da tempo lavora al Palazzo di Giustizia, e che quindi è conosciuta e ritenuta persona degna di fiducia.

Proprio per questo motivo l’episodio risulta essere ancor più grave.

E’ successo nella giornata di ieri, 14 Novembre 2011, che la giovane venisse chiamata per un consulto linguistico riguardo ad un processo ove erano imputati due maghrebini. Una volta entrata nell’aula del Tribunale, il giudice preposto alla causa, anziché focalizzarsi principalmente su ciò che aveva da dire la giovane a riguardo si è interessato al velo sul suo capo – che lasciava perfettamente visibili viso e mani – che lei indossava per seguire un precetto della religione islamica, arrivando addirittura a chiederle di toglierselo pubblicamente.

La ragazza, ligia alla sua religione, ha preferito rinunciare all’incarico uscendo dall’aula.

Il giudice ha giustificato la sua richiesta citando l’articolo 129 del codice di procedura civile, dopo l’abrogazione dell’articolo 434 del codice di procedura penale, che impone di presentarsi al cospetto della corte a capo scoperto. Ci si è dimenticati però che la legge in questione non ha a che fare con questioni religiose ma con mere questioni di buona creanza – non è bene coprire il capo in aula senza motivo perché rappresenterebbe un affronto nei confronti dell’autorità in questione -, e che in passato, più e più volte, sono entrati nelle varie aule di Tribunale suore in divisa con il loro velo, ebrei con il kippah, persone con tumori sottoposti a cure terapiche con il capo coperto da cappelli et similia senza che nessuno abbia mai chiesto loro di scoprirsi.

Non bisogna invece scordare che la Costituzione italiana garantisce la pratica della propria religione:

Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Purtroppo, in questo caso, lo Stato anziché “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” l’ostacolo lo ha posto. Impedendo di fatto ad una giovane onesta di procurarsi un lecito guadagno e costringendola a dover fare una scelta tra due rinunce, mettendola in condizione di dover comunque perdere qualcosa indipendentemente dall’opzione scelta.

Se questa è Giustizia.

Lara Aisha Bisconzo