La gestione del Museo Archeologico rimane all’Istituto Internazionale di Studi Liguri: a decretarlo oggi la sentenza del TAR. Il tribunale amministrativo regionale silenzia così il Comune di Savona che aveva affidato la gestione alle Cooperative “Archeologia” e “A.R.C.A.”.
Il ricorso al TAR contro il comune di Savona era stato presentato il 21 gennaio scorso dall’Istituto Internazionale di Studi Liguri che nel 1990 aveva creato il Museo Archeologico e che da allora lo ha gestito ininterrottamente e ampliato anno dopo anno, con i reperti provenienti dalle 58 campagne di scavi archeologici condotti dal 1956 ad oggi dallo stesso Istituto di Studi Liguri sul Priamàr e in altri luoghi della città. L’Istituto Internazionale di Studi Liguri (IISL) aveva partecipato alla gara comunale del 2015, presentando una “offerta economica” più vantaggiosa per il Comune, che aveva però attribuito un punto in più alle Cooperative “Archeologia” e “A.R.C.A.” per l’“offerta tecnica”.
Dopo il ricorso al TAR presentato dall’Istituto di studi Liguri, il 18 febbraio scorso il Tribunale Amministrativo Regionale aveva emesso un’ordinanza di “sospensione dell’esecuzione del provvedimento di aggiudicazione definitiva” dell’affidamento della gestione per due anni del Civico Museo Archeologico al “raggruppamento aggiudicatario” delle due cooperative “Archeologica” (di Firenze) e “A.R.C.A.” (di Albisola-Vado Ligure), proclamato il 23 dicembre scorso dalla Dirigente del Settore Cultura del Comune di Savona, architetto Marta Sperati. Infatti nel ricorso depositato dall’Istituto di studi Liguri, lo studio Acquarone di Genova dimostra che la Cooperativa Archeologia, che si è aggiudicata insieme ad Arca la gestione della struttura, non avrebbe potuto partecipare alla gara per violazioni della normativa in materia di sicurezza. La legale rappresentante di Archeologia infatti, era stata condannata per omicidio colposo e il codice degli appalti (dl163/2006), all’articolo 38, afferma che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di gara coloro che hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate in materia di sicurezza”.
Soddisfazione da parte del direttore scientifico dell'Istituto Internazionale Studi Liguri, Carlo Varaldo: "Il TAR ha confermato che il nostro ricorso è stato legittimo - afferma - Con la sentenza sono finalmente terminati sei lunghi mesi di ansie e timori, il tribunale regionale ci dà piena ragione e si esprime riguardo i reati contestati sulla sicurezza e la professionalità. Grande è la soddisfazione, abbiamo così evitato di vanificare un lavoro lungo oltre venti anni".
Così si legge nella sentenza: “Il ricorso è rivolto avverso l’aggiudicazione al controinteressato di una gara per l’affidamento del servizio di gestione del Civico Museo Archeologico della Città di Savona. Il ricorso è fondato, avuto riguardo alle censure dedotte con il primo motivo. Deve, infatti, rilevarsi come la dott.ssa Susanna Bianchi sia stata condannata con sentenza della Corte d’appello di Firenze 7 maggio 2015 n. 827, confermata dalla Cassazione 12 gennaio 2016, alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione per i reato di cui all’art. 589 c.p..
In particolare la dott.ssa Bianchi in qualità di responsabile della Cooperativa Archeologia, concessionaria delle aree esterne del Forte Belvedere in Firenze e titolare della convenzione per la realizzazione della manifestazione “Forte Belvedere 2008 Cinema & Musica”, non avendo “redatto il documento di valutazione dei rischi, che si era peraltro anche impegnata a consegnare ai sensi dell’art. 5 della convenzione”, nonché avendo “gestito l’attività di intrattenimento nell’immobile che non presentava i necessari requisiti di sicurezza stante l’insufficiente illuminazione, l’assenza di protezioni ai parapetti e l’inadeguata segnalazione del pericolo”, non avendo previsto “sistemi compensativi di sicurezza, quali l’individuazione e delimitazione mediante idonei sbarramenti dell’area priva di rischi alla quale limitare l’accesso del pubblico con previsione di una illuminazione integrativa da riservarsi a tale zona e idonea segnalazione del pericolo, mediante appropriata segnaletica e eventualmente anche con impiego di personale di sorveglianza in numero congruo rispetto agli utenti”, non avendo “esercitato il dovuto controllo sull’attività del tecnico incaricato Frusi”, provocava, “la caduta da un bastione della fortezza di Locatelli Veronica, la quale per l’oscurità e la mancanza di idonee protezioni e segnalazioni del pericolo, nel percorrere il terrapieno in prossimità della sottostante zona denominata ‘la cannoniera’ diretta all’area cd della ‘cisterna’ dove era stato allestito il palco per un concerto jazz trovando oltretutto ostruito da una transenna il camminamento, lo superava con un passo, portandosi sul parapetto del bastione, da dove precipitava nel vuoto, dall’altezza di oltre 8 metri e nell’impatto riportava lesioni personali politraumatiche di tale gravità da cagionarne poco dopo il decesso”.
La Commissione ha bensì valutato tale condanna ma ne ha escluso la rilevanza ostativa alla partecipazione “valutata la tipologia di reato, le date dei fatti la circostanza che per uno di essi è intervenuta la riabilitazione”. Ciò posto occorre sussumere tale condanna nella disposizione di cui all’art.38 d.lgs. 163/06.
A tal riguardo deve escludersi che tale condanna possa essere ricondotta all’ipotesi ostativa di cui all’art. 38, comma 1 lett. e) d.lgs. 163/06 che preclude la partecipazione alle gare a color che “hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di sicurezza e a ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro, risultanti dai dati in possesso dell'Osservatorio”
La tesi del ricorrente, secondo cui la lettera e) conterrebbe due norme autonome tra di loro cozza contro il dato letterale costituito dalla presenza dell’aggettivo “altro” contenuto nella seconda parte della norma.
Deve, infatti, condividersi la prospettazione delle resistenti che hanno evidenziato come la prima parte della norma contempli l’infrazione alle norme sulla sicurezza sul lavoro, come fatto palese dall’aggettivo “altro” contenuto nella seconda parte della norma riferito ad ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro. La circostanza che sia prevista la violazione di ogni “altro” obbligo derivante dai rapporti di lavoro induce a ritenere che anche l’infrazione alle norme sulla sicurezza debba essere riferito alla sicurezza sul lavoro pena la sostanziale inutilità dell’aggettivo altro nella economia della disposizione.
In questo senso la determinazione 12 gennaio 2010 n. 1 dell’AVCP, seppure non vincolate per il giudice, appare condivisibile laddove afferma che: “Per infrazioni alle norme in materia di sicurezza - e di ogni altro obbligo derivante dal rapporto di lavoro - debbono intendersi infrazioni disciplinate da varie normative, nell'ambito delle quali è opportuno citare il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494 ed il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, poi confluiti nel d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, (recante il testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), a sua volta da ultimo modificato dal d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106”.
La condanna può essere ricondotta agevolmente alla ipotesi disciplinata dalla successiva lettera f) sub specie dell’errore grave nell’esercizio della attività professionale.
Né appaiono persuasive le obiezioni alla ricostruzione in tali termini sollevate dalle difese delle resistenti.
Si sostiene in primo luogo che il relativo vizio non sarebbe stato dedotto con il ricorso, onde il vizio di ultrapetizione in cui incorrerebbe il giudice ove dovesse tenerne conto.
A tale obiezione occorre replicare in via generale come, nella deduzione del motivo, l’omissione ovvero l’erronea indicazione delle norme di legge violate non costituisca motivo di inammissibilità del motivo stesso, conclusione questa che oggi appare rafforzata dal diverso tenore dell’art. 40 c.p.a che si limita a prevedere che i motivi siano specifici laddove l’art. 6 rd. 642/1907 imponeva l’indicazione delle norme di legge violate. Il diverso tenore della norma, rispetto a quella previgente, induce a ritenere che la specificazione del motivo non possa che attenere al fatto descritto e non ricomprenda più il complesso normativo cui sussumerlo.
Ciò che conta, pertanto, è la ricostruzione precisa e specifica del fatto che deve essere oggetto di valutazione da parte del giudice senza che l’omesso o erroneo riferimento alle norme di legge violate possa assumere una rilevanza preclusiva ovvero vincolante per il giudice che porrebbe nel nulla il fondamentale potere del giudice di qualificare giuridicamente il fatto espresso dal principio iura novit curia. Da altro punto di vista l’ipertrofia normativa e la stratificazione delle discipline hanno oggi raggiunto un livello tale che imporre l’esatta indicazione del parametro normativo pena la genericità ovvero l’infondatezza del motivo equivale a rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa.
Il ricorrente ha sostenuto la preclusività della condanna subita dalla dott.ssa Bianchi alla partecipazione alle gare onde non può sostenersi la genericità del motivo ovvero, sotto altro profilo, la sua infondatezza.
Nel caso di specie l’indicazione delle norme violate appare verosimilmente frutto di un lapsus calami. Deve, infatti, rilevarsi come il ricorrente avesse dedotto la violazione delle lettere b) ed e) del d.lgs. 163/06.
Orbene è agevole rilevare come l’indicazione della lettera b), essendo tale ipotesi completamente avulsa dalla fattispecie. sia evidentemente frutto di un errore onde legittimamente può ritenersi che il ricorrente abbia inteso riferirsi alla diversa lettera e).
Ne, da ultimo, l’erronea indicazione delle norme violate (id est riferimento alla lettera b) in luogo del riferimento alla lettera f) dell’art. 38 comma 1 d.lgs. 163/06) ha frustrato da qualsivoglia punto di vista il diritto di difesa posto che le controparti hanno potuto ampiamente argomentare in ordine alla insussistenza della violazione dell’art. 38 comma 1 lett. f) d.lgs. 163/06.
Non sussiste, pertanto, alcuna ragione, né dal punto di vista della disponibilità della tutela giurisdizionale né dal punto di vista della tutela del diritto di difesa delle controparti, che osti allo scrutinio della prospettata violazione dell’art. 38, comma 1 lett. f) d.lgs. 163/06, avendo il ricorrente ha dato conto della presenza di una condanna dallo stesso ritenuta ostativa alla partecipazione alla gara e avendo ricondotto tale ostatività alla previsione di cu all’art. 38 d.lgs. 163/06.
Le obiezioni sollevate dalle difese resistenti si appuntano in secondo luogo sulla risalenza del fatto. A tal proposito si invoca la disciplina di cui all’art. 57, comma 7 della direttiva 2014/24/UE che sarebbe chiaramente orientata a conferire una limitata rilevanza temporale, non superiore a tre anni, ai motivi ostativi alla partecipazione alle gare.
Sul punto, tuttavia, occorre rilevare come la direttiva non sia stata ancora recepita onde nessun vincolo preclusivo può sussistere in tal senso.
Le difese delle controparti eccepiscono anche come la fattispecie di cui alla lettera f) rilevi solo se commessa nei confronti della stazione appaltante che bandisce la gara.
Tale ricostruzione della norma di cui alla lettera f) non persuade.
A differenza della altra ipotesi, pure contemplata dall’art. 38, comma 1 lett. f) d.lgs. 163/06, quella della grave negligenza e malafede che è richiesto siano stata posta in essere nei confronti della stessa stazione appaltante che bandisce la gara tale requisito soggettivo non ricorre per l’ipotesi dell’errore grave nella propria attività professionale per il quale è sufficiente l’accertamento, peraltro, con qualsiasi mezzo, da parte della stazione appaltante.
A questo punto occorre esaminare se la condanna riportata dalla dott.ssa Bianchi possa integrare gli estremi dell’errore professionale grave.
La lettura dell’imputazione, già precedentemente trascritta, e le motivazioni della sentenza sono univoche in tale senso: “con una minima attenzione sarebbe stato evidente che, la conformazione dei luoghi: terrapieno quasi all’altezza del bastione superabile con un passo, costituiva un pericolo mortale, specie di notte quando, per la mancanza di illuminazione, si confondeva il “vuoto per pieno. Una seria valutazione del pericolo dell’area da lei gestita avrebbe consentito all’imputata, di apprezzare l’impossibilità che otto sorveglianti “mobili” lo scongiurassero, anche per la prevedibile grande affluenza di pubblico, libero di muoversi in tutta l’area, con un’illuminazione gravemente insufficiente e priva di qualsiasi indicazione di percorsi obbligati…omissis…indubitabile che la Bianchi non gestì l’area datale in gestione con diligenza e prudenza”.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, ha così condannato “le parti resistenti in solido tra loro al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese di giudizio che si liquidano in €. 4000, 00 (quattromila/00) oltre IVA e CPA come per legge”.